– Etiopia: una vita persa a Koshekoshe –
Quando scendono le tenebre il mio cuore comincia ad avere paura”: sono le parole che Eielsa usa per farci capire quanto odio prova per il suo lavoro e quanto sia duro per lei, ogni sera, svendere il suo corpo a quegli uomini che neanche conosce.
Eielsa è una delle tante abitanti del quartiere Koshekoshe, la zona a luci rosse di Bahir Dar, sita al centro della città. Si trova proprio dietro alle vie principali, quelle con i negozi e gli uffici governativi, a due passi dal lago, dove anche i turisti occidentali fanno tappa. Perché Bahir Dar è una delle zone più conosciute dell’Etiopia e più apprezzate, per la presenza del lago Tana con i suoi affascinanti monasteri e le spettacolari cascate del Nilo blu.
La desolazione di Koshekoshe
Quella di Koshekoshe è un’area abbastanza circoscritta, fatta di casupole in terra, vecchie e semicandenti, come indica lo stesso nome, che significa appunto “collezione di cose vecchie e sporche”. È una definizione che fa riferimento alle abitazioni, più che altro delle capanne in rovina, ma in senso metaforico anche alle persone. Una sorta di villaggio dentro la città, un corpo estraneo e scuro che sembra esser stato buttato lì a caso. Le prostitute che vivono e lavorano a Koshekoshe in verità non sono anziane, ma piuttosto veterane nel lavoro e, secondo le dicerie, non molto belle.

Tra le vie di Koshekoshe
Sono più di quattrocento donne: molte hanno la propria baracca, altre risiedono a piccoli gruppetti in catapecchie appena più grandi gestite da una ‘maitresse’ più esperta, che trova i clienti. Molte di loro sono sieropositive, alcune prendono anche le medicine antiretrovirali, ma le precauzioni non sono comunque molto diffuse.
Le condizioni in cui vivono sono pietose: le abitazioni sono piccole e fatiscenti, con le pareti in terra che sembrano venir giù da un momento all’altro, senza pavimenti, nessun sistema idrico che rifornisca l’area e niente servizi igienici degni di questo nome.
La sporcizia e il caos la fanno da padroni. In quelle viuzze vivono le prostitute ma anche i loro figli, quando ne hanno: durante il giorno i bambini si vedono scorazzare in giro, giocare con copertoni rotti e pezzi di ferro; mentre la sera aspettano pazienti che le madri adeschino gli avventori e si guadagnino il necessario per vivere. Rimangono vicino alle capanne o si acquattano sotto il letto quando hanno sonno.
Per i vicoli di un quartiere ignorato da tutti
Visitando il quartiere di notte sembra di entrare in un mondo surreale, le lampadine rosse che illuminano l’interno delle abitazioni conferiscono alla zona un’aurea spettrale. Camminando non si vede quasi nulla, eccetto le ombre distorte delle piccole casette e le figure delle donne che, spesso in mutandoni e canottiera, cercano di attirare i clienti, ma si nascondo davanti a noi. Fare foto di notte è impossibile.
Tutti gli abitanti di Bahir Dar sanno di quella zona e ne disprezzano l’esistenza tanto quanto ripugnano chi la abita.
Ma ufficialmente nessuno protesta: le autorità e le forze dell’ordine pare non facciano nulla per risolvere il problema, lasciando che quel bordello a cielo aperto continui la sua triste e malandata vita. Chi lo frequenta e chi vi abita non conduce certo una vita tranquilla: gli eccessi e l’aggressività sono normali e non di radio si verificano liti ed episodi di violenza. Colpisce come una realtà del genere possa essere proprio a due passi dalla via principale della città.

Una delle vie principali di Bahir Dar addobbata a festa
Sono entrata nel quartiere guidata da un carissimo amico, nonché collega etiope, che prima di portarmi lì è andato in avanscoperta per verificare la situazione e trovare contatti. Siamo sgattaiolati per quelle viuzze di fango veloci, perché i giornalisti che vogliono far domande non sono ben visti, specie se uno è anche straniero. Sono stata fortunata perché grazie alla mediazione del mio amico sono riuscita a parlare con una delle donne.
L’incontro con Eielsa
Eielsa è una di quelle ragazze guardate con disprezzo dal resto dei cittadini. A Koshekoshe trascorre la sua esistenza ormai da dodici anni. Quelle viuzze maleodoranti e quelle storte casupole sono diventate la sua prigione e al tempo stesso il suo rifugio da quel mondo con cui ormai, per vergogna, si rifiuta di avere contatti. Quando è arrivata era una ragazzina impaurita e in fuga, alla ricerca di una vita migliore: non sapeva dove e come muoversi in quella città sconosciuta. Purtroppo è incappata in uno dei tanti broker sempre pronti ad adescare quelle che, come lei, giungono dalla campagna sole e senza contatti.
All’inizio si è lasciata trasportare inconsapevole dell’orrore in cui stava precipitando, poi ne è rimasta intrappolata. Ora non sa come uscirne.
Ci apre la porta della sua catapecchia e ci lascia entrare nella sua piccola casa fatta di terra e lamiera, la sua tana: una stanzetta col pavimento in terra tutto avvallato, illuminata dalla solita fioca lampadina rossa con i fili penzolanti. Gran parte dello spazio è occupato da un ampio letto matrimoniale, con accanto un comodino che ha perso i piedi e si regge su due grosse pietre; sopra uno stereo a cassette, perché la musica in Etiopia non manca mai. Una tenda di pizzo, un tempo forse bianca ma ora giallognola, tenta di celare gli utensili da cucina e i vecchi contenitori per l’acqua stipati in un angolo.

Una delle case di Koshekoshe
Sulle pareti piene di bozze alcune fotografie di qualche anno prima che la mostrano meno stanca e meno sformata. A ridurre il già minimo spazio per muoversi, ci sono anche due piccole panche pronte ad accogliere i clienti; accanto una scatola con il necessario per offrire loro alcool preparato in casa. Lì vicino un tavolinetto con il bastoncino d’incenso, immancabile nelle case etiopi, e due bandierine dell’Amhara National Democratic Mouvement.
Nei giorni in cui conosciamo Eielsa, la regione celebra i venti anni di vita del partito: Bahir Dar è tappezzata di striscioni e bandiere. Tutti ‘devono’ commemorare la ricorrenza e pure lei si è adeguata.
A guardar bene, la casa all’interno ha una sporgenza, come se parte fosse chiusa: là dietro c’è la stanzetta di sua figlia, ci spiegherà poi, ricavata da quella principale con dei fogli di carta plasticata.

Eielsa si è lasciata fotografare ma io ho preferito celare il suo volto. Questa è la sua casa.
Ci fa accomodare sulle panche mentre lei, con indosso una gonna a fiori e una striminzita canottiera, si siede sul letto. Non sembra troppo imbarazzata: con calma e lo sguardo quasi fisso, piano piano si apre con noi e ci racconta il suo incubo. Le sue mani si muovono lentamente accompagnando le parole, i suoi occhi spesso si perdono nel vuoto. Il suo volto è così segnato che l’età diventa quasi indefinibile: dovrebbe avere meno di 30 anni, ma sembra impossibile.
Quando la fuga diventa prigione
Eielsa è originaria di una zona rurale nel sud Gonder, a nord di Bahir Dar. A 14 anni scappò di casa per sfuggire ad una delle tradizioni più antiche nella regione Amhara: i matrimoni precoci decisi dalle famiglie. Spesso bambine di appena 10 anni sono costrette a sposare uomini molto più vecchi. Lei ricorda le voci dei parenti che organizzavano il suo matrimonio. Era terribilmente intimorita, provò a far cambiare idea alla famiglia, ma tutto fu inutile.
Per Eielsa l’unica via per sottrarsi a quel destino era scappare, e così fece.
Si recò a Gonder ma purtroppo la fuga si rivelò ben diversa da come l’aveva immaginata. Per mantenersi trovò lavoro come domestica presso una famiglia: un’occupazione molto comune per le ragazzine in questa regione etiope, che spesso però si trasforma in un terribile sfruttamento con non poche violenze. Così accadde a Eielsa: lavorava duramente per dodici ore e veniva spesso picchiata.
“La vita che trovai a Gonder era ciò che avevo provato ad evitare fuggendo”, rivela senza giri di parole.
Dopo cinque mesi di sofferenze e umiliazioni decise di mollare quel lavoro e lasciare anche quella città per provare, in un altro posto, a costruirsi una vita dignitosa e serena. Senza aver riscosso neanche un soldo per i mesi di lavoro (spesso i salari non vengono pagati mensilmente ma ammucchiati ed elargiti una tantum), scappò di nuovo, per raggiungere Bahir Dar. Il viaggio verso la sua nuova meta non fu semplice: dovette sottostare a condizioni terribili pur di avere un passaggio, subì orrende violenze, ma alla fine raggiunse Bahir Dar. In quella città avrebbe dovuto buttarsi tutto alle spalle e ricominciare da capo, questa volta veramente. Lì, invece, iniziò la vera tragedia, che è ora la sua vita.
“Scesa alla stazione dei bus l’unico ad aspettarmi era un broker. Alla stazione ce ne sono molti in attesa di ragazze che viaggiano sole”, dice con una dolorosa ironia. È così che funziona, ci spiega: quegli uomini sono abili a riconoscere le ragazze di campagna che arrivano in città con tanti sogni in testa ma senza nessun supporto.
Fu quell’uomo che l’aiutò a trovare una sistemazione a Koshekoshe e l’avviò al lavoro di prostituta, riempiendole la testa di illusioni, ovviamente in cambio di soldi. All’inizio andò a vivere in una casetta piccolissima, poi, dopo la nascita di sua figlia, cercò qualcosa di più grande per dare uno spazio suo anche alla piccola. Si trasferì così nella stanza in cui ci ha accolto.
I rischi di un brutto mesterie
Il suo lavoro da prostituta non le assicura un’esistenza agiata, per i suoi servizi guadagna una miseria, molto meno anche di altre prostitute fuori da Koshekoshe. Gli avventori di Koshekoshe sono di norma poveri: autisti e contadini che dopo il mercato trascorrano la notte in città, lavoratori a giornata e, cosa che ci sorprende, diversi studenti universitari. La maggior parte sono sposati.

Tra i vicoli di Koshekoshe
Purtroppo, all’inizio non sapeva nulla dei rischi che correva, soprattutto dell’HIV, diffusissimo in Etiopia. Racconta che per diverso tempo non usò precauzioni . È così per molte donne del quartiere, anche per quelle che sanno, ci spiega: specie i primi tempi, la frustrazione, la paura, il dolore sono tali che le ragazze non hanno la forza di imporsi agli uomini per avere rapporti sicuri. Fu da uno di quegli incontri senza precauzioni che nacque, circa dieci anni fa, la sua bambina, ma non sa chi sia il padre.
Quando la paura di ti immobilizza
Qualche anno dopo aver intrapreso questa vita, ha avuto la possibilità di seguire un corso di formazione sull’HIV/AIDS e le malattie sessualmente trasmissibili, organizzato dall’Ethiopia family planning association, e da quel momento ha preso coscienza dei pericoli che corre. Ha cominciato ad aver maggiore cura di se stessa. Purtroppo però la conoscenza tra la popolazione è bassissima e spesso tra i suoi clienti quasi nulla. Sono tanti coloro che sono disposti a pagare di più pur di non usare precauzioni. Non deve essere facile imporsi in quei casi. Purtroppo la scarsa conoscenza fa si che arrivino anche richieste e pretese strane, tanto da annullare anche l’efficacia di un’eventuale precauzione.
I suoi racconti sono sconcertanti e restituiscono la drammaticità del fenomeno AIDS in Etiopia.
In verità, Eielsa non conosce il suo stato: cinque anni fa si sottopose al test dell’HIV e risultò negativa, ma in seguito non trovò più il coraggio di rifarlo. La paura di scoprire di essere malata è così grande che preferisce restare nell’ignoranza.

Una panoramica di Koshekoshe dall’alto
Il peso di non essere sola
Come se tutto ciò non fosse già abbastanza, ci sono anche altri pesi che la donna si è dovuta sobbarcare. Oltre alla figlia, che tra l’altro non è mai andata a scuola, Eielsa deve mantenere anche una sorella. Due anni dopo esser arrivata a Bahir Dar, il padre morì e la madre, totalmente incapace di mandare avanti la famiglia, le affidò gli altri due figli, una femmina e un maschietto. All’inizio Eielsa affittò per loro una stanza, per non farli vivere a Koshekoshe, ma purtroppo il fratello vi rimase poco.
Come accade a molti ragazzini senza mezzi e senza adulti che li controllano è finito in strada e ora è uno dei tanti bambini che popolano le vie della capitale dell’Etiopia vivendo di espedienti (avevo raccontato la storia di due di questi ragazzini in un articolo che trovi qui).
La sorella, invece, continua a vivere nella stanza in affitto e frequenta la scuola tecnica grazie all’aiuto economico di Eielsa. Il desiderio di quest’ultima sarebbe quello di poter far vivere fuori dal quartiere anche la sua bambina: ma la figlia preferisce rimanere vicino alla mamma.
La bambina non ne parla ma sa quale lavoro fa la sua mamma, ma lei non ha alternative. Per proteggerla un minimo ha scelto di pagare un po’ di più e prendere in affitto quella catapecchia un po’ più grande, ha creato quel muro di carta e plastica e spera che così veda meno. Questa era l’unica cosa che poteva fare nelle sue condizioni. Purtroppo, spiega, la situazione è sempre precaria e anche il mantenimento della sorella è a rischio: se dovesse abbandonare la scuola potrebbe finire anche lei a Koshekoshe. Eielsa lo sa ed è terrorizzata da questo. Odia la sua situazione e non fatica ad ammetterlo.
“A causa del lavoro che faccio gli uomini li odio – ammette senza tanti giri di parole – mi hanno sempre fatta soffrire. Quando scendono le tenebre il mio cuore comincia ad avere paura”. Le sue sono parole senza speranza.
Ha sentito parlare di aiuti esterni e ha visto alcune sue ex colleghe coinvolte in progetti di income generatin activity, ma purtroppo sembrano non essere andati bene e ciò la sconforta. Ora riesce a guadagnare qualcosina, il timore di fallire la intimorisce così tanto che la fa desistere.
La paura del futuro
La speranza di cambiare e la rassegnazione si scontrano dentro di lei, ma la seconda sembra ormai aver prevalso costringendola ad una vita immobile da emarginata. La notte lavora fino a tardi e la mattina la trascorre dormendo. Le ore scorrono lente, le passa in compagnia delle altre abitanti del quartiere, chiacchierando, fumando, bevendo e masticando chat (foglie che danno delle sensazioni di euforia o stordimento: è una tradizione piuttosto diffusa in Etiopia, soprattutto tra i più poveri che a volte le usano anche per togliere il senso della fame). Forse questo è il suo modo di evadere un po’ da quella realtà, da quella prigione. D’altronde lei dal quartiere non esce quasi mai. Nelle vie affollate e rumorose che sono lì a pochi metri preferisce non mettere piede, ha paura di essere discriminata, di incontrare qualcuno che possa riconoscerla e additarla come prostituta.
Da anni è rinchiusa a Koshekoshe, tra quelle case cadenti, in quello stato di abbandono, trascuratezza e sporcizia che è proprio della zona e di chi lo abita.

Questo articolo è stato possibile solo grazie a lui, il mio speciale amico etiope.
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9 Commenti
Buongiorno
Sarei desiderosa di conoscere l’Etiopia:la sua storia e la sua cultura.Trovo molto interessanti i suoi articoli.
Tanti anni fa ho adottato un bambino nativo della zona di Bahir Dar che ora è un giovane adulto.
Mi piacerebbe tanto poter ritrovare alcuni suoi familiari e ricostruire parte del suo passato.
Forse lei mi potrebbe aiutare in questo se le fornisco alcuni dati e generalità.
La ringrazio
Salve Gabriella, l’Etiopia è un paese stupendo anche se ora segnato da grandissimi tensioni e lotte. Purtroppo non ho molti strumenti per aiutarla, potrei provare a metterla in contatto con l’organizzazione con cui ho lavorato ma non so se la possono aiutare perché non si occupa di adozioni o servizi simili.
Che storia shockante, lascia veramente senza fiato, grazie per averla raccontata così bene, dobbiamo ricordarci più spesso di quanto siamo fortunati e di come ci approda qui dall’estero spesso viene da situazioni come queste.
Ciao Adriana, grazie a te. Si, spesso ci dimentichiamo di quale siano le situazioni di partenza e di quanta sofferenza ci sia in altri paesi.
Che squallore… Povera gente… Incatenata ad una vita fatta di soprusi e povertà.
Ciao Alessandra, si è una vita veramente dura. Un incontro che non dimenticherò mai.
Una storia terribile, e purtroppo non unica. è un reportage così crudo e così triste. La cosa che fa male di tutto questo è poi la mancanza di speranza di questa giovane la quale va avanti non per se stessa, ma per le due persone di cui ha cura.
Mamma che storia! Purtroppo come la storia di Eielsa, la ragazza di Koshekoshe, ce ne sono tante nel mondo. Quando conosciamo le vite che fanno queste persone ci rendiamo sempre più conto di quanto siamo fortunati ad essere nati in posto sicuro, senza guerre e “ricco” in confronto allo stato di povertà di queste persone.
Ciao Claudia, si hai ragione: di fronte a certe realtà possiamo solo capire la grandezza di ciò che abbiamo. peccato che spesso ce ne dimentichiamo.