– Etiopia: la sconvolgente e drammatica visita al carcere –
Il carcere è uno di quei luoghi di cui spesso si preferisce dimenticare l’esistenza, perché a volte quello che c’è dentro fa paura, o perché sappiamo che le condizioni di vita in quei posti sono terribili, anche in un paese democratico e cosiddetto “sviluppato”. Non ho visitato altre prigioni al di fuori di quella etiope, ma ho visto servizi televisivi e letto articoli sugli istituti detentivi di vari stati. Seppur ne esistano alcuni come quello sull’isola di Bastoy in Norvegia, dove le cose sembrano funzionare, in genere le strutture sono carenti in molti aspetti, dagli spazi alle condizioni igienico-sanitarie. Quando entri in quei posti, ovunque essi siano, non ti aspetti stanze accoglienti e persone sorridenti. Ma quello che mi sono trovata davanti al carcere di Debre Markos è andato ben oltre ciò che immaginavo.
Una precisazione è d’obbligo: la mia prima visita alla prigione è avvenuta dopo poche settimane dal mio arrivo in Etiopia. Avevo visto ancora poco di quel paese e molte delle privazioni che la popolazione in generale era costretta a sopportare non le avevo ancora toccate con mano. Avrei scoperto, giorno dopo giorno, che tante delle terribili condizioni viste nel carcere erano la normalità per buona parte delle persone, anche fuori da quella struttura.
Il primo impatto con il carcere
Il carcere di Debre Markos non è molto lontano dal centro, cioè dalla piazza in cui si incrociano le due strade più grandi che attraversano e dividono il villaggio, nonché le uniche due asfaltate. Da lontano non sembra neanche un carcere. Il muro di recinzione della struttura detentiva non è molto alto e le torrette di guardia sono un paio, non di più. La porta al mattino resta praticamente sempre aperta e c’è un andirivieni di familiari che sembra non fermarsi mai.
Niente filo spinato, né spesse reti metalliche appuntite; neanche un eccessivo dispiegamento di vigilanti con armi in pugno. Anzi, la maggior parte delle guardie non porta pistole e chi le ha non le tiene in vista. Solo dalle torrette spuntano dei militari con dei grandi fucili, vecchi modelli molto vistosi, probabilmente reduci da qualche guerra di liberazione.
Le porte aperte e l’andirivieni farebbe pensare ad un posto tutto sommato tranquillo, ma superato il muro, c’è un mondo che non ti aspetti, con gente che vive e lavora stipata in una superficie decisamente troppo piccola. Sia gli spazi chiusi che quelli all’aperto sono sovraffollati, a camminarci ti senti soffocare.
Il carcere è composto da alcune spoglie strutture in cemento, dove si trovano gli uffici e i dormitori, e da una serie di baracche e sgangherati capannoni di lamiera e legno, ammassati gli uni sugli altri, che ospitano invece i laboratori.
Non c’è asfalto o ghiaia, solo terra rossa, che quando piove diventa un pantano. Quel giorno aveva piovuto e i piedi affondavano fino ad oltre le caviglie. Sembrava di esser finiti tra le sabbie mobili.
La maggior parte delle persone, un po’ perché è tradizione un po’ perché gli spazi al chiuso sono invivibili, preferisce cucinare e lavorare all’aperto: così, in mezzo al fango, si svolge gran parte della vita della comunità carceraria.
Stipati come animali
Al momento della mia visita il carcere contava più di 1.400 detenuti, di cui sole 46 donne. La struttura non è adatta a contenerne così tanti. Tra loro, anche diversi malati di mente, che vivono in mezzo agli altri senza assistenza specifica. Secondo i miei accompagnatori (alcune persone della mia ONG e dei sorveglianti della prigione), prima il numero dei detenuti era più alto, ma per questioni elettorali alcuni erano stati scarcerati da non molto. Dopo tre ore passate lì non capisco come potesse contenere altre persone.
Gli ambienti in cui dormono e quelli in cui lavorano i detenuti sono pieni zeppi, fino al soffitto, e non è un modo di dire. Mantenere una condizione igienica accettabile è impensabile. In quel periodo poi a peggiorare il tutto c’era la carenza di acqua dovuta al danneggiamento dell’acquedotto, che per mesi ha lasciato il nostro villaggio quasi a secco.
La cosa assurda è che lì la situazione è meglio che altrove, tanto che un trasferimento in un’altra struttura non è né ipotizzabile né auspicabile.
La situazione davanti ai miei occhi è destinata ad aggravarsi a partire dalle prime ore del pomeriggio, quando la porta d’ingresso della prigione si chiude e con essa anche quelle delle strutture interne. La vita del carcere si ferma fino alle prime luci dell’alba successiva: i detenuti devono rimanere rinchiusi nei dormitori, ammassati come bestie in uno spazio senz’aria.
A controllare quella folla di 1.400 detenuti ci sono 110 poliziotti, di cui 60 guardie effettive e 50 impiegati negli uffici. Secondo le guardie non ci sono grossi problemi, qualche lite ogni tanto, ma niente di grave. Secondo colleghi giornalisti che seguivano la situazione, la realtà è ben diversa: le tensioni sarbebbero frequenti, soprattutto causate dalla scarsità di cibo e di spazio vitale.
La struttura del carcere
Il carcere è diviso in sezioni: c’è la parte dedicata alle donne, più piccola e ben sorvegliata all’ingresso, e quella più ampia per gli uomini. Prima di accedere ad entrambe si attraversa un cortile sul quale si affaccia una grande tettoia di lamiera e canne colorate: è lo spazio per gli incontri con i familiari. I lati sono chiusi solo fino a metà e all’interno sono stati creati minuscoli scompartimenti, dove c’è a malapena lo spazio per sedersi. Le conversazioni si sovrappongono le une sulle altre in un brusio costante che rende difficile comprendersi.
Poco distante ci sono le baracche/chiese delle diverse confessioni religiose. Un po’ più isolata, invece, c’è una piccola scuola per i bambini, che in verità versa in uno stato di totale abbandono e non viene usata. È stata aperta grazie alle ONG Save the children e Prison followship Ethiopia per ospitare i figli delle detenute, ma qualcosa deve esser andato storto: purtroppo i vigilanti sono molto restii nel dare informazioni. Dal lato opposto c’è la scuola primaria per i detenuti: ci vanno giornalmente 250 maschi e 5 donne, tutti volontariamente, e molti di loro col tempo stanno completando gli studi primari.
Dagli avvocati tradizionali ai medici
All’interno della recinzione trovano spazio anche le baracche degli ‘avvocati tradizionali’, come li definiscono i militari: ci spiegano che non hanno laurea o altri titoli di studio per esercitare nelle corti di giustizia. Sono più che altro dei consiglieri: i loro uffici non sono altro che una serie di sgabuzzini in lamiera, piccoli, disadorni e senza corrente. Uno attaccato all’altro. Stanno lì seduti nei loro traballanti tavolini con malconci codici penali alla mano per redigere richieste di riduzione della pena. La maggior parte dei detenuti non potrebbe neanche sperare di rivolgersi ad un avvocato, tanto è povera.
Nella struttura viene fornita anche la consulenza medica: in un piccolo ambulatorio c’è il responsabile che visita e suggerisce cure, oltre ad impartire training in HIV ed educazione alla salute. Grazie a questi corsi, molti hanno scoperto che esiste il virus dell’AIDS, che in Etiopia è diffusissimo
Purtroppo la conoscenza in merito all’HIV in Etiopia è ancora molto limitata, specie nelle aree rurali, dove molti non ne hanno mai sentito parlare.
In carcere, ogni tre mesi vengono fatti i test e, secondo quanto riferisce l’esperto, tutti i detenuti vi si sottopongono di spontanea volontà. Questa precisazione stona con le dichiarazioni raccolte nei mesi in Etiopia: secondo il personale medico, i giornalisti e i membri delle ONG, la reticenza di fronte al test dell’HIV è altissima e i pregiudizi estremamente diffusi. Molti preferiscono non sapere o, se sanno, non curarsi per evitare che qualcuno lo scopra. Purtroppo però non ho modo di ottenere dati in proposito relativi al carcere, gli uffici governativi sono molto restii a fornirne. D’altronde, per il responsabile dell’ambulatorio potrebbe essere fonte di problemi con i suoi superiori sostenere una tesi diversa, che metterebbe in cattiva luce la struttura. Oltre all’HIV, l’ambulatorio deve far fronte a febbri, infiammazioni respiratorie, di fegato e stomaco. E non potrebbe essere altrimenti dove manca acqua per lavarsi (usano quella piovana) e dove tutti sono ammassati gli uni sugli altri. Ci sono poi le infezioni della pelle, la tubercolesi e i casi di malaria, anche se in questa zona non è molto diffusa. Il grosso problema è che i malati non hanno cibo a sufficienza e per questo diventano sempre più deboli.
Etiopia: quando la realtà è così dura che si fatica a comprenderla
La visita alla prigione è intensa: è un’immersione profonda in un mondo tanto lontano da me che faccio fatica a mettere a fuoco. Ad ogni passo in quel caos di fango e persone si apre davanti ai miei occhi una scena diversa, dall’androne con i familiari e i baracchini degli avvocati, lo sguardo si posa sulle docce all’aperto, che non sono altro che delle tettoie di lamiera da cui scorre acqua piovana. Lo sguardo cade poi sugli uomini che svolgono, con fare automatico, i lavori loro assegnati. Volti che scrutano, il più delle volte sorridenti e pronti a farsi fotografare, altre volte interrogativi, quasi minacciosi.
Camminiamo tra il fango e i massi: non ci sono viottoli o attrezzature. Solo terra rossa, è tutto un pantano che imprigiona le gambe, rende il nostro procedere anche più titubante. Districarsi tra i viottoli di terra e buche sembra un’impresa coi nostri scarponi. Sembriamo quasi ridicoli davanti a loro che, con ciabatte di plastica e scarpe sformate, si muovono agilmente.
Seduti fuori dalle baracche, a terra o su sedili improvvisati, tra quella fanghiglia che si appiccica addosso come colla, i detenuti lavorano i materiali più vari, dal legno alle stoffe. In mezzo al fango rossastro rimango colpita dai fili di cotone che vengono tessuti e arrotolati su vecchi attrezzi che da noi sono pezzi da museo artigiano. Al rosso della terra etiope, che diventa ancora più inteso quando bagnato, si contrappone forte e lucente il bianco del filo. In mezzo allo sporco è quasi ipnotico.
Nella sezione degli uomini ci sono un paio di grandi cortili e alcuni vani aperti ma più piccoli dove le persone lavorano e trascorrono il tempo libero o cucinano nei tradizionali fornelli a carbone. I dormitori sono dei lunghi e bassi casermoni in mattoni e cemento nei quali si devono coricare centinaia di uomini: non c’è spazio per alcun tipo di mobilio e oggetto personale.
Non ci sono letti, ma solo consunti materassi di paglia stesi a terra, uno attaccato all’altro. Una volta distesi, i piedi di un uomo finiscono sul materasso di un altro. Non c’è spazio per camminare, è inevitabile pestare i giacigli. Quelle poche cose che le persone hanno con loro sono appese, infilate dentro buste di plastica colorate appese con ganci e fili al soffitto. L’aria dentro è irrespirabile e l’odore di sporco è forte.
Non ci sono finestre, ma fessure che lasciano entrare appena la luce. In un angolo c’è la televisione: quella si, c’è, ma lo spazio per camminare e l’aria per sopravvivere mancano. Su quei letti posticci dove potrebbero entrare solo dei ragazzini, giacciono distesi, immobili, degli uomini anche durante il nostro giro. Entriamo e neanche si accorgono della nostra presenza: non fanno una mossa, restano sotto le loro coperte sporche e bucate, distesi coi piedi che spuntano fuori.
Il lavoro nelle carceri etiopi
I capannoni dove lavorano sono per la maggior parte in lamiera, freddi d’inverno (perché siamo sull’altopiano e le temperature si abbassano) e caldi d’estate. Anche quelli iper-affollati e maleodoranti. Eccetto il laboratorio dei falegnami, gli altri sono un ammasso di macchinari: vecchi telai e altrettanto antiquate macchine da cucire. I detenuti lavorano incastrati nelle loro apparecchiature e possono fare solo i movimenti strettamente necessari. Stoffe, lane e il resto degli strumenti penzolano dal soffitto sulle loro teste.
In verità, anche alcuni di loro sono sopraelevati, appollaiati come uccelli su finti rami in plastica di una gabbia: una sorta di secondo piano posticcio, di soppalco ma senza un vero pavimento.
Li osservo e mi domando come faccia a reggersi quell’insieme caotico di assi, fili, macchine e persone: mi aspetto che si accartocci tutto da un momento all’altro.
È una condizione di lavoro inimmaginabile, ma loro proseguono nelle loro mansioni sorridendo, fieri di mostrare a noi stranieri le loro abilità e le merci prodotte. Speranzosi di venderci qualcosa.
Nel grande cortile all’ingresso c’è anche chi, come occupazione, spacca pietre per lastricare le strade oppure pulisce le scarpe. Il ricavato, per quanto concerne la produzione di stoffe e abiti, va ai detenuti: su ogni prodotto è scritto il nome dell’autore a cui sarà destinato il guadagno una volta venduto negli appositi negozi. Ma sulla divisione dei proventi c’è confusione e pare che il carcere tenga per la struttura buona parte dei proventi. Ciò che conta più di tutti, spiegano le guardie, è che i detenuti imparino un mestiere da praticare una volta usciti di prigione.
Il carcere femminile
Dal primo cortile, ci siamo avvicinati ad una serie di lamiere storte. A prima vista sembrano ammassate a caso, ma in realtà celano l’accesso alla parte riservata alle donne, molto più piccola. Si accede subito ad un cortile di fango, dove lavorano, vivono, cucinano e si intrattengono la quarantina di donne carcerate e i loro bambini. Al momento della nostra visita 15 donne avevano con loro i figli: i bambini possono vivere con le mamme fino a quando non compiono 4 anni.
Sul cortile si affaccia una piccola baracca per le guardie, i lavatoi (che devono servire anche per l’igiene personale) e le latrine. Una tettoia funge da laboratorio, mentre in un edificio in mattoni di due sole stanze ci sono i dormitori. Le camerate sono piccole e insufficienti rispetto al numero di donne e bambini.
Alcune hanno i letti, altre dormono in sformati materassi adagiati sul pavimento in cemento. Dalle pareti annerite di muffa e fumo, e dal basso soffitto, pendono i soliti sacchetti di plastica con gli effetti personali. In terra fango e polvere. Le stanze, senza finestre e un’unica porta, sono buie e maleodoranti.
Mancano i servizi basi per creare un ambiente che sia appena sano e dignitoso. In quegli spazi malridotti, coperti di fango e muffa devono crescere anche i bimbi. Gli abiti che indossa (in molti casi gli unici che hanno) sono lisi, strappati: hanno perso il loro colore originario e ora sono coperti da un denso strato di terra, polvere e insetti. La maggior parte delle persone è scalza, con i piedi ormai induriti e sporchi. Anche gli indumenti appena lavati e stesi ad asciugare sembrano sporchi, tanto sono consumati e scoloriti, nonché coperti da polvere e fango, essendo in pratica un campo di terra.
Le donne al lavoro nel carcere
Nel cortile e sotto la tettoia le donne lavorano, circondate dai loro scriccioli. Alcuni sono veramente piccoli, ma con madri che è facile scambiare per nonne. Le donne siedono in terra o in piccoli sgabelli di legno: filano il cotone con ampi e armoniosi movimenti delle braccia, o intrecciano abilmente cestini in paglia tipici dell’Etiopia. Nella parte chiusa della tettoia, una stretta stanza avvolta dalla penombra, ci son alcune macchine da cucire, modelli antiquati ma funzionanti, buoni per confezionare i ricamati tendaggi che le donne cuciono dopo aver seguito un apposito corso di formazione. Si occupano inoltre di setacciare il grano, che poi passano agli uomini per le successive lavorazioni; allevano anche polli, donati loro dall’Ong Comunità volontari nel mondo. Purtroppo il cibo scarseggia per tutti e le bestiole sono smagrite e mezze spelate. Parte del tempo è dedicato infine a una piccola piantagione di alberi di mele, che coltivano insieme agli uomini malati di Aids. Anche i semi per il campo sono stati forniti dal Cvm.
L’infanzia nel carcere
Tra le donne al lavoro girovagano i bambini: quelli più grandi si danno da fare con qualche cesto, quelli più piccoli giocano o se ne stanno silenziosi appollaiati sulla schiena della mamma, legati con delle stoffe che cingono il corpo delle donne. L’atmosfera, nonostante il luogo di reclusione, sembra serena. Sarà la nostra presenza, che spesso suscita curiosità, o il tradizionale senso di ospitalità, ma le detenute non sembrano infastidite molto da noi. Anzi, superati i primi momenti di imbarazzo, cercano di mostrare i loro strumenti, pronte a farsi fotografare e a regalare grandi sorrisi. Difficile dire se nella routine le giornate siano poi così tranquille, specie visti gli spazi angusti che donne e bambini di diverse età sono costretti a condividere. Qualche tensione ogni tanto si crea, ammettono le vigilanti: nascono screzi tra i bambini che si trasformano poi in liti tra le madri. L’equilibrio è precario.
Timidi sorrisi che nascondono storie terribili
Le donne rinchiuse nella struttura di Debre Markos hanno tra i 17 e i 60 anni. Nonostante i gran sorrisoni che ti rivolgono, i loro sguardi e le loro espressioni sono segnati dalla fatica e da storie difficili. Alcune sono giovani ma hanno già passati tremendi che forse vorrebbero dimenticare; diverse hanno davanti anni di reclusione e famiglie lontane chilometri e chilometri, spesso senza i soldi necessari per venirle a trovare. Quei lavoretti nel carcere servono anche a quello: ad aiutare i figli fuori dalla prigione, i parenti che si prendono cura di loro, spesso le nonne, e a permettere loro di venire a Debre Markos per una breve visita, seppur molto raramente. Tuttavia, specie per i prodotti confezionati a macchina, parte del ricavato va alla prigione per organizzare i corsi di formazione.
Farsi raccontar le loro storie non è facile. Molte sono rinchiuse per omicidio: hanno ammazzato il marito, o i familiari di lui. Molte altre sono state condannate per furti, specie in abitazioni. Reati gravi in alcuni casi, che fanno venir i brividi. Ma quei reati, seppure ingiustificabili, svelano molto di quelle che sono le condizioni di vita in certe zone, specie quelle rurali: la miseria e la povertà che la fanno da padrone condannando molti a un’esistenza di stenti e incertezze.
Quelle condanne e quelle storie rivelano tanto anche di antiche tradizioni, come quella dei matrimoni combinati quando gli sposi sono bambini o ancora peggio tra una bambina e un uomo che ha anche 40 anni più di lei, dello scarso valore dato alla donna e delle terribili pratiche come l’infibulazione, che ancora vengono eseguite nonostante siano illegali.
Alcune alla fine si sono aperte, hanno raccontato episodi agghiaccianti, realtà difficili da comprendere. I carceri sono ovunque un posto di sofferenza e dolore.
Per me quella è stata l’unica esperienza in una struttura del genere fino ad ora, a distanza di tempo le sensazioni provate restano fortissime. Il tempo non le ha indebolite e fatico ancora a trovare le giuste parole per esprimerle.
.
..
.
12 Commenti
Un racconto davvero toccante ed emozionante. Certe esperienze, a parer mio, lasciano un segno indelebile nel nostro modo di agire e di vivere. Non è da tutti decidere di viverle però, quindi non ti posso che fare i complimenti per il coraggio. Grazie per aver condiviso questa esperienza così forte.
Grazie mille Martina. Per me era una cosa importante da fare, una cosa che sentivo tanto di voler fare e la porterò dentro per sempre. 🙂
I bambini in carcere non ci dovrebbero stare. Qualche giorno fa leggevo di quelli che sono in Italia. Un paese che si considera civile che ha questi orrori sotto al tappeto..bambini che vivono con le madri recluse, soprattutto a Rebibbia, quanti di noi ne sono a conoscenza? Il carcere è una realtà da cui distogliendo lo sguardo…Sei stata molto coraggiosa ad affrontare una simile realtà, io non chiuderei occhio. Leggerò di più dei tuoi racconti e dell’Etiopia, un paese che ho visto solo dall’alto durante il mio volo per il Mozambico, ma di cui ricordo le distese di baracche. Chissà se quando i miei bambini sono più grandi potrò anche io fare un’esperienza come la tua..
Ciao Elena, si purtroppo del carcere se ne sa veramente poco, in Italia come nel resto del mondo. Sono realtà terribili.
Per quanto riguarda la mia esperienza in Etiopia è stata dura ma che mi ha aperto gli occhi.
Il tuo racconto è stato davvero toccante. In un certo modo mi sono sentita dentro quel carcere con te, a camminare in mezzo al fango e ad ascoltare storie atroci di disperazione e povertà.
Cose che noi spesso fatichiamo quasi solo ad immaginare.
Ciao Giulia, grazie mille. In effetti è un mondo così lontano per noi che è impossibile immaginarlo.
Hai scritto un ottimo post Camilla, molto forte e toccante. Immagino come la visita ti abbia in qualche modo segnata per sempre. Non dovremmo mai dimenticare quanto siamo fortunati a vivere in determinate parti di mondo e soprattutto quante persone che meriterebbero di rifarsi una vita migliore al di fuori del proprio paese ci siano. Complimenti per il post e per il tuo coraggio.
Grazie mille Giulia. In effetti spesso ci dimentichiamo di quanto il mondo sia diverso non troppo lontano da noi. Io penso di essere stata molto fortunata a poterlo vedere con i miei occhi.
Questo è un post molto forte e devo dire che molte volte mi sono fermata chiedendomi se volessi davvero proseguire nella lettura. Nelle tue parole si comprende bene quanto tu abbia sofferto nel vedere queste carceri.
Ciao Ingrid, si è un post un po’ forte perché come dici tu è stata molto dura come esperienza, ma forse anche per questo ci tenevo a condividerla.
E’ molto toccante il tuo racconto. Penso che finché non si vedono di persona queste realtà sia difficile capire la situazione in cui vivono queste genti. Ho degli amici che hanno vissuto come volontari in Africa per alcuni anni e dicono proprio che è un altro mondo per mentalità, per condizioni di vita. Grazie
Ciao Alessandra, grazie a te. Si sono realtà molto diverse e per quanto tu possa leggere e prepararti, stare sul posto è una cosa molto diversa.