– Etiopia: il tentativo di riscatto di una giovane donna –
Con il figlioletto di appena un anno che dorme beato legato sulla sua schiena, Mezeret armeggia instancabilmente con cemento e stampi. Insieme alle sue college sta costruendo le stufe circolari per cuocere l’enjera, il tipico pane etiope. Si muove con agilità e scioltezza come se quel fagottino dal volto angelico neanche ci fosse: ormai è abituata ad averlo sulla schiena e quel lavoro è la sua unica speranza per il loro futuro.
La vita non è stata clemente con Mezeret Tilamun, che ha dovuto sopportare il peso di enormi e drammatiche difficoltà. Quel piccolo e dolce carico che ha sulla schiena è probabilmente la sua forza e la sua spinta. Per lui si è fatta coraggio anche quando ha scoperto di essere malata, quando le hanno detto di aver contratto il virus dell’HIV/AIDS.
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Storie di donne etiopi che meritano di essere conosciute
Mezeret è una delle tante ragazze che ho conosciuto durante i miei mesi in Etiopia, mentre lavoravo con l’ONG Comunità volontari per il Mondo. Ognuna di loro ha una storia terribile alle spalle, molte hanno perso la speranza e si sono rassegnate ad una vita di stenti e sofferenze, come Eilsa, la prostituta conosciuta a Bahir Dar. Molte altre hanno provato a lottare, a rialzarsi, a costruire qualcosa di diverso, spesso mettendosi insieme e facendo gruppo. Sono vite dure, piene di problemi, a volte difficili da capire per noi che abitiamo in paesi tanto diversi. Ma sono anche storie che svelano tanto di un Paese come l’Etiopia e che meritano di essere raccontate.
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Mezeret e il suo grande dolore
Quando incontro Mezeret lei ha 21 anni e ha scoperto da circa un anno di essere sieropositiva. Ancora non è veramente riuscita ad accettarlo e, per quanto si sforzi, al solo pensiero le viene da piangere. Le lacrime scendono copiose e incontrollate; i tentativi di consolarla sono inutili. Di fronte a quel pianto silenzioso e incontenibile sembra impossibile trovare le parole, lo stomaco si contorce. Il fatto è che lei quella terribile malattia probabilmente non l’ha contratta per una sua disattenzione, ma a causa di una violenza dalla quale non ha trovato né scampo né giusta poi. È successo in una delle case in cui ha lavorato come domestica.
Fare la domestica in Etiopia
Negli ultimi sei anni Mezeret ha prestato servizio a tempo pieno presso alcune famiglie di Addis Abeba, più esattamente in tre diverse abitazioni. Di ognuna di queste però ha brutti ricordi. In Etiopia è abitudine per le ragazze, soprattutto quelle più povere, prestare servizio fin da giovanissime in casa d’altri: aiutano in cucina, con le pulizie, con i bambini, con i lavori nei campi. In cambio dovrebbero ricevere vitto, alloggio e un piccolo stipendio. Quando sono molto piccole dovrebbero poter beneficiare di qualche ora libera per andare a scuola. Frequentemente però le cose non vanno così. Spesso quelle case diventano luoghi di sofferenza e sfruttamento per le bambini e le giovani donne etiopi.
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La storia di Mezeret
Da quando Mezeret ha cominciato a lavorare come domestica la sua vita è stata un susseguirsi di maltrattamenti e violenze di ogni tipo. Nella prima abitazione è rimasta per circa un anno, il datore di lavoro non era cattivo con lei, racconta con un filo di voce: “Mi dava da mangiare a sufficienza e pure uno stipendio, il problema è che non mi permetteva di andare a scuola”. Se il capofamiglia in quel caso non la maltrattava, ci pensavano però i figli a punirla a loro piacimento: “Erano cinque in tutto, tre femmine e due maschi. Spesso mi picchiavano perché dicevano che non facevo le cose nel modo giusto”, aggiunge con una profonda tristezza negli occhi. Un po’ per le frequenti percosse, un po’ per l’impossibilità di andare a scuola, Mezeret decise di lasciare quella casa e trovare un altro posto dove lavorare.
Il grande dramma delle violenze
Fu presso la seconda famiglia in cui prestò servizio che dovette affrontare, probabilmente, le cattiverie più atroci. Se da un lato poteva ritenersi soddisfatta perché le permettevano di andare a scuola, da tutti gli altri punti di vista la sua permanenza in quella casa fu terribile. La concessione di frequentare i corsi serali, che le hanno permesso di arrivare al decimo grado di scuola, le è costata molta cara.
Oltre alle tantissime ore di lavoro, dalle 5 di mattina fino a sera tardi (fatte salve le tre ore di scuola), nella nuova famiglia non le davano cibo a sufficienza. La cosa peggiore però è stata la violenza subita dal figlio ventisettenne.
Mezeret era disperata ma non sapeva a chi rivolgersi: “Ero sola ad Addis Abeba, non conoscevo nessuno e neanche la città. Ero in una ricca famiglia che viveva in un grande compound e io da lì non potevo muovermi: avevo il permesso di uscire solo per andare a scuola, a pochi minuti da casa. Del resto della capitale etiope non conoscevo nulla. Non sapevo dove poter chiedere aiuto, a chi raccontare quanto successo”, spiega con rassegnazione, senza nessuna traccia di rabbia. In casa non presero le sue difese, al contrario le proibirono fermamente di parlare con chiunque di quanto accaduto.
Violata, maltrattata e spaventata a morte, Mezeret decise di andarsene, di lasciare quel luogo dove tutto e tutti erano fonte di sofferenza.
A quel punto si trasferì a vivere e lavorare da un piccolo commerciante, sempre nella capitale etiopia, dove dava una mano in casa e in negozio. Lì, finalmente, sembrava aver trovato un po’ di comprensione e forse anche di pace, ma era solo un’illusione. L’uomo la chiese in sposa ma quell’unione si trasformò poco dopo in un inferno. Gran parte dei problemi sorsero quando, durante la gravidanza, lei cominciò a star poco bene. Invece di starle vicino, l’uomo diventò più rude e i litigi si fecero sempre più frequenti. Mezeret non riesce a spiegare le ragioni di quei continui scontri. Racconta solo che non andavano d’accorto, ma evita dettagli ed episodi. Fu allora che, incinta, ammalata e con un carico di terribili esperienze alle spalle, decise che era giunto il momento di fare i bagagli e tornarsene a casa da sua madre, a Dejen (nell’Etiopia centro occidentale, a nord di Addis Abeba).
La terribile piaga dell’HIV in Etiopia
Purtroppo però era in arrivo un altro terribile momento, qualcosa che per lei è più difficile da superare di tutto quanto le è successo prima: la scoperta di essere sieropositiva. “Quando me l’hanno comunicato volevo uccidermi”, dice mentre il pianto è incontrollabile. “Poi, mia mamma mi ha aiutata ad accettare questa mia condizione. Ora prendo anche le medicine antiretrovirali – precisa singhiozzando -. Però quando ci penso, e rifletto sulla mia situazione e su quella di mia madre, che ma è poverissima, sto male e sono molto preoccupata”. A quanto pare le sue conoscenze sul virus erano piuttosto basse e in seguito alla violenza non si sottopose all’analisi del sangue per controllare di non aver contratto nessuna malattia.
La diffusione del virus in Etiopia è molto alta e ancora oggi lo stigma nei confronti di chi è sieropositivo è ampiamente diffuso.
Purtroppo la conoscenza della malattia, dei modi per provenirla, dell’importanza delle medicine, è ancora molto bassa, specie tra la popolazione più povera, che spesso non ha accesso neanche all’istruzione base. La maggior parte della popolazione vive in aree rurali isolate e, anche per questo, molti non hanno accesso neanche alle medicine o se lo hanno solo in modo discontinuo. Tutto ciò rende ancora più difficile la vita di coloro che si ammalano.
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Tra paura e speranza
Mezeret prova a farsi coraggio, a non abbattersi, ma in certi momenti dentro di lei non trova la forza per reagire. Il dover combattere con quel virus la terrorizza. C’è poi un pensiero che la assilla: la convinzione di aver preso la malattia durante la violenza sessuale. Non si sofferma sui motivi da cui scaturisce questa certezza. Insistere a parlarne è una tortura che non merita, nella sua mente non ci sono dubbi. L’unica grande consolazione è che il figlio non ha contratto il virus. L’ha chiamato Tsium, in riferimento a una delle principali chiese di Aksum, storica città etiope particolarmente nota sotto il profilo religioso perché vi è custodita l’Arca dell’Alleanza.
La battaglia contra la povertà
Purtroppo, quella contro l’HIV non è l’unica battaglia che deve combattere, c’è anche quella con la povertà: per quanto la madre cerchi di starle vicina, economicamente non le può dare certezze. Non lo hai mai potuto fare. “I miei genitori sono separati e noi figli, in tutto quattro, viviamo in posti diversi per lavoro. Ci sentiamo solo per telefono – racconta con uno sguardo triste -. Mia madre non ha mai avuto abbastanza soldi per mantenerci: vende cipolle e patate al mercato, ma non ci ricava molto. Anche il salario di mio padre è molto basso”. Ora Mezeret vive con la mamma e cercano di supportarsi a vicenda. “Per fortuna adesso ci sono i soldi che guadagniamo dalla vendita delle stufe, se il mercato è buono il denaro mi basta per vivere”.
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“Credo che questo tipo di produzione possa essere abbastanza redditizia, spero che sia sufficiente per me e mio figlio”, racconta ritrovando un minimo di serenità. L’attività di cui parla Mezeret è quella avviata dall’associazione di ex domestiche nata recentemente a Dejen, anche con l’aiuto del CVM.
Questo gruppo di donne sono state formate e con un microcredito sono state incentivate ad avviare un’attività che dovrebbe permettere ad ognuna di loro di costruirsi un futuro.
Hanno creato un’associazione, seguono corsi, lavorano e si supportano a vicenda, dividendo i ricavati e investendone una parte per futuri investimenti del gruppo. Molti di loro hanno alle spalle storie di sofferenza, molto simili purtroppo a quella di Mezeret. Alcune sono giovanissime ma dai loro volti non sembrerebbe.
Questo gruppo per Mezeret e il suo bambino, come per la maggior parte delle sue colleghe, è la grande occasione della vita. Quando ne parla il volto cambia, perde quel velo cupo e gli occhi tornano a brillare. Questa opportunità è ciò su cui Mezeret ripone ogni speranza.
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2 Commenti
Mi viene solo da dirti una parola: Complimenti!!!! E’ giusto far conoscere come vivono donne, bambini e uomini nel mondo…
Grazie mille Valentina. Quella in Etiopia per me è stata un’esperienza profonda ed importantissima e volevo condividere con altri le storie che avevo ascoltato e quello che avevo visto. Purtroppo a certe realtà si guarda troppo poco.