Il viaggio nell’Omo valley, in Etiopia, per me è stata un’esperienza travolgente. In due giorni abbiamo percorso chilometri e chilometri, lungo distese polverose, seguendo strade che erano appena accennate, fermandoci in isolati villaggi di capanne per incontrare tante tribù diverse.
Con gli occhi che non sapevano dove posarsi prima, i colori e gli odori che prendevano il sopravvento e, soprattutto, con l’emozione unica di immergersi in una realtà così diversa, abbiamo provato a scoprire qualcosa in più su popolazioni tanto affascinanti quanto lontane da noi, come i Konso, i Tsemay e i Mursi.
L’Etiopia, una meta difficile
Quella nell’Omo valley è stata la seconda parte di un viaggio stupendo nella zona sud occidentale dell’Etiopia, cominciato con la visita ad Arba Minch (che ho raccontato qui). Come scrivevo anche in quell’articolo, i viaggi in Etiopia sono stati molto particolari, perché la gioia della scoperta doveva sempre fare i conti con la povertà estrema e la sofferenza di una parte della popolazione.
Quando scrivo di certe tappe non posso non pensare alle persone incontrate,
ai bimbi sporchi e dai vestiti sdruciti, alle loro manine che si allungavano curiose, titubanti e sfacciate allo stesso tempo. Da un lato speravano in un regalo, dall’altro spesso volevano solo giocare con qualcuno che venisse da fuori.
Informazioni di servizio
Per girare questa parte dell’Etiopia ci siamo affidati a una guida incontrata ad Arba Minch (Abbey, perennemente sorridente) e abbiamo noleggiato un’auto con conducente. La guida si è occupata di trovare l’autista, la macchina e di assicurare le scorte di acqua e carburante, perché per parte del tragitto nell’Omo valley sarebbero state introvabili. In alcune aree del Mago national park, dove si trovano molte delle tribù, si deve far salire a bordo una guardia armata di kalashnikov e pagare una quota d’ingresso.
Lungo la Omo valley
Gli spostamenti nell’Omo valley sono stati un’avventura: perché le strade erano quasi inesistenti, la polvere è stata una costante del viaggio e, con il caldo, si appiccicava addosso. In alcuni momenti sembrava di procedere nel nulla, poi all’improvviso trovavamo un villaggio o un fiumiciattolo/pozza da guadare.
I panorami che abbiamo potuto ammirare erano pazzeschi:
la Omo valley vista dall’alto è di grande impatto e quelle distese che sembravano non finire mai, con le montagne sullo sfondo, toglievano il fiato. Durante il viaggio abbiamo incontrato pochissime auto, ma parecchi babbuini, antilopi, avvoltoi e mucche.
Gesergio: la New York Etiope
La prima tappa di questo viaggio ci ha portati alla scoperta dell’etnia Konso, che in realtà vive alle porte dell’Omo valley. Noi abbiamo fatto tappa nei villaggi di Gesergio e Macheke. Il primo è famoso per il panorama: una distesa di rocce rosse che, erose dagli agenti atmosferici, hanno assunto la forma di alte torri.
La chiamano la New York Etiope, per via di quegli spuntoni che vanno verso l’altro e sembrerebbero ricordare i grattacieli.
Magari non assomiglia proprio alla Grande mela, ma è molto suggestiva. È uno di quei posti che ti mette davanti al reale potere della natura.
Nel labirinto del villaggio Konso
A Macheke invece ci siamo addentrati nelle tradizioni di questa affascinante popolazione. Il villaggio è un reticolo di viuzze strette, muretti a secco e recinti di tronchi, dentro ai quali si trovano le capanne, fatte di legno e paglia. Sembrava quasi di essere in un labirinto.
Tutto intorno al villaggio ci sono i terrazzamenti: i Konso infatti sono esperti agricoltori, soprattutto di caffè e solco. Da quest’ultimo ricavano le bevande tipiche, tra cui una sorta di birra (così ce l’hanno presentata) scurissima e molto fermentata. Al centro del villaggio si trova la piazza, con una grande capanna per le riunioni degli uomini (che in realtà ci dormono anche).
Tradizioni e usanze dei Konso
I Konso sono un’etnia molto affascinante, con usanze che si rifanno al paganesimo. Nella piazza principale ci sono i ceppi delle generazioni: ne viene piantato uno ogni 18 anni per segnare l’età della tribù. Non molto distante c’è anche la pietra della verità, per giudicare i sospettati di reati (la pietra dovrebbe bruciare la mano di chi mente).
I totem sono un’altra delle caratteristiche di questa etnia: si chiamano waqa e vengono costruiti in onore dei morti. Sono fatti in legno e possono essere anche molto alti.
Un rispetto particolare viene riservato inoltre al corpo del capo tribù una volta defunto: viene mummificato e custodito in una speciale capanna, dalla quale viene portato fuori solo in cerimonie speciali.
In giro per il villaggio abbiamo incontrato soprattutto donne, che indossavano gonne a pieghe tutte colorate (tipiche di questa tribù) e tanti bambini incuriositi dalla nostra presenza.
Tappa in un villaggio Tsemay
La prima vera tribù della valle dell’Omo è quella dei Tsemay: quando siamo arrivati erano seduti in cerchio sotto uno degli alberi della distesa. Gli uomini di questa etnia girano quasi nudi, solo la parte degli organi genitali è solitamente coperta. Le donne invece hanno abiti fatti di pelle e decorati con le conchiglie.
Ciò che colpisce di più sono però le acconciature, che indicano anche lo stato celibe/nubile o sposato. Per far reggere la capigliatura viene usato un impasto di acqua, ocra e resina, al quale poi viene attaccato di tutto: cinturini, spille, pezzi di plastica e chissà cos’altro.
Visita a sorpresa in una casa Ari
Il nostro itinerario non lo prevedeva, ma durante il tragitto ci siamo imbattuti in una casa Ari, un’altra etnia della zona: una serie di tukul vicini piuttosto bassi circondati da piantagioni di mango e finto banano (una pianta che assomiglia al banano ma non dà frutti, le cui foglie vengono usate in vari modi, ad esempio gli abiti).
Alla scoperta dei Mursi
Dopo una notte in un hotel a Jinka, dove praticamente non c’era nulla, ci siamo addentrati ancora di più nel parco del Mago alla ricerca dei Mursi: una tribù guerriera e nomade, probabilmente tra le più note dell’Omo valley, per via del piatto labiale.
Le donne infatti, fin dall’adolescenza, praticano un foro sul labbro inferiore sul quale mettono dei pezzi di legno via via più grandi, fino a passare ai piattelli in terracotta. Alla fine i cerchi possono raggiungere anche i 16 centimetri: la grandezza è indice di prestigio. Vengono anche estratti due denti per facilitare l’inserimento del piatto.
Le origini di questa usanza non sono del tutte certe, molto probabilmente risalgono al periodo della schiavitù.
Deturpandosi il corpo, con il piatto così come con le cicatrici, le donne non era più considerate belle e non suscitavano l’interesse degli acquirenti che le avrebbero rese schiave.
Secondo altri, il piatto è un segno di identità tribale; mentre per alcuni un modo per far uscire il male dal corpo.
Oggi i piatti labiali e le cicatrici sono considerati segni di bellezza, ma le donne indossano i piattelli solo in presenza di altre persone, di solito lasciano il labbro a penzolare.
Scarificazioni e disegni
Gli uomini invece non hanno il piatto, ma praticano la scarificazione del corpo per apparire più attraenti. Durante la nostra visita si sono tenuti alla larga, ci sono venuti incontro soprattutto donne e bambini.
A caratterizzare questa tribù non ci sono solo tatuaggi e piatti labiali, ma anche l’abitudine di dipingersi il corpo e di indossare originali copricapi fatti con i materiali più disparati: zanne di animali, legni, pezzi di ferro e plastica.
La maggior parte delle donne girano a seno nudo, coprendo solo parte del corpo con abiti di pelle. Va tenuto in considerazione che la presenza di turisti per loro è una fonte di sostentamento, quindi spesso si fanno fotografare solo dietro compenso e si arrabbiano se cercato di farlo di nascosto.
Il mercato dei Key Afar
Se le tappe nei villaggi erano state affascinanti, la visita al mercato di Key Afar è stata qualcosa di incredibile. È una sosta imperdibile se si visita l’Omo valley. Lì si ritrovano un po’ tutte le tribù per acquistare oggetti di ogni tipo. Si possono vedere persone diversissime tra loro. Sembrava che un libro sulle tribù avesse preso vita.
C’era chi vendeva su tavoli e chi con un telo a terra, chi acquistava, chi si riposava prima di ripartire e chi girava apparentemente senza una meta. Era caldissimo e c’era un sacco di polvere, ma anche un’atmosfera unica.
Noi, tra l’altro, siamo stati scelti da un piccolo bambino che all’improvviso si è attaccato ai pantaloni di Ugo. Non sapevamo da dove fosse venuto, nessuno lo riveniva a prendere e quando siamo dovuti risalire in auto non riuscivamo a convincerlo a rimanere lì.
La folla colorata e vivace del mercato è stata l’ultima tappa di questo affascinante viaggio. Da Key Afar infatti siamo ritornati ad Arba Minch e da lì ad Addis Abeba.
Nota a margine
Noi abbiamo fatto questo giro in due lunghissimi e intensi giorni, perché eravamo vincolati da questioni di tempo. La zona si può vedere con più tempo, spingendosi oltre alla ricerca di altri villaggi. Alcuni tour propongono anche notti in tenda, ma io lo consiglio solo a chi ha veramente la capacità di adattamento.
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4 Commenti
Un viaggio in Etiopia mi affascina tantissimo, ma conoscendomi so che mi sentirei sempre in bilico tra comportamenti etici o meno. Anche le fotografie, il fatto che lo facciano dietro compenso può essere un modo per aiutarli ma allo stesso anche per far sì che diventino dipendenti dai turisti e che qualcuno se ne possa approfittare, trattandoli come uno show business o una semplice attrazione turistica. Non so, sono sempre combattuta su queste cose e non so mai come comportarmi.
Ciao Giulia, hai perfettamente colto il problema. Un viaggio in un paese come l’Etiopia mette di fronte a riflessioni come questa, purtroppo non tutti si soffermano su questi aspetti ma in realtà bisognerebbe farlo. Naturalmente qualche foto uno la vuol fare, ma bisogna sempre stare attenti all’approccio che si usa e a non superare certi limiti. Anche avere una buona guida che ti aiuti a gestire queste situazioni è molto importante.Credo che sia uno di quei posti dove andare solo dopo essersi documentato un po’, non solo sulle cose da vedere, ma anche sulla società e le condizioni di vita.
Wow! Una cultura incredibile, piena di usanze e tradizione che per noi sono così lontane ma così affascinanti! ?
Ciao Kilometri a colazione. È vero, abbiamo potuto scoprire tante usanze lontane da noi ma così affascinanti. È
stat un’occasione unica di confronto e scoperta, per me è stato un viaggio bellissimo e speciale.