– Come si racconta un paese in guerra –
Come si racconta un paese in guerra? Come fare a non fermarsi solo alla dinamica del conflitto e dare voce alla società civile? Come descrivere la vita quotidiana quando non ci si può muovere liberamente? Ho fatto una lunga chiacchierata con una delle giornaliste di guerra freelance che più ammiro in Italia: Laura Silvia Battaglia.
Esperta di Medio oriente, ha seguito gran parte delle situazioni di crisi del Mediterraneo allargato, è una grande conoscitrice dell’Iraq e soprattutto una delle più preparate quando si parla di Yemen. Tra le altre cose è documentarista, docente universitaria, vincitrice di vari premi giornalistici, autrice di documentari e di un web doc che sta uscendo in questo periodo.
Ci siamo conosciute anni fa al festival del giornalismo a Perugia. Ho deciso di intervistarla perché ha raccontato e racconta realtà molto diverse della nostra, con una profondità di analisi e narrazione straordinarie. Viaggia molto, lo fa in territori difficili e per lunghi periodi.
Nel file audio trovi l’intervista completa, di seguito le parti salienti con i rimandi ai minuti della registrazione.
Le foto mi sono state fornite direttamente da Laura Silvia Battaglia
Raccontare un paese in guerra: prima di partire
Proprio dalla preparazione dei viaggi è iniziata la nostra conversazione, perché andare nei luoghi dove va lei non è facile. C’è un lavoro di mesi articolato che inizia dalla conoscenza tecnica del luogo, quindi la mappatura del territorio e sapere chi comanda dove. È fondamentale conoscere già il posto e avere contatti locali sviluppati in mesi: “Io tendo a non andare mai per la prima volta in un paese in conflitto dove non sia già stata prima”, (audio: 1’55”) spiega Laura Silvia. C’è poi un altro aspetto: “tenere presente di settimana in settimana se cambiano le cose: questo è molto comune nei conflitti attuali che sono molto mobili, geopardizzati. In una zona anche di pochi chilometri, da una città all’altra, spostandosi potrebbe comandare una milizia diversa. Questo è un aspetto molto importante per capire come si vuole seguire il conflitto: da che parte e con chi. Ad esempio, nel 2011, in Libia, quando andai a Benghasi, poi Misurata e Tripoli riuscii a passare da Misurata a Tripoli perché con il fixer prendemmo un autista il cui fratello era considerato una persona molto valorosa di una delle brigate di Misurata che erano entrate a Tripoli. (…) (audio 3’00’) In quel momento, due mesi prima della morte di Gheddafi, era stato possibile passare tutti i check point perché quella macchina dava rassicurazioni su chi fossimo. Ovviamente un giornalista non patteggia per nessuno, però deve capire in queste situazioni da quale parte seguire il conflitto: è una decisione che ha una conseguenza anche sulla narrativa della guerra. Per farlo deve sapere quali possono essere i pass por tout, che sono garanzia di sicurezza per sé, per le persone che porta con sé e che diventano funzionali per la storia che racconta”.
Il ruolo del fixer
Poi ci sono altri aspetti da valutare, ad esempio dove stare, dove dormire, come muoversi giorno per giorno: un lavoro che, come spiega Laura Silvia, “si fa a monte, si fa quando si arriva e si fa durante, ogni giorno in modo certosino”. Molto dipende dalla fase del conflitto, anche per capire chi aspettarsi ai vari check point. Qui emerge l’importanza del fixer: (6’30”) “il collega, di solito giornalista, che ti accompagna è fondamentale. Queste persone sono le chiavi sul territorio, perché in queste zone tutto si svolge sulla base delle relazioni e delle conoscenze. È fondamentale capire dove si vuole andare e chi portarsi”. Poi ovviamente, sottolinea, ci sono gli aspetti culturali che vanno compresi e rispettati per non essere considerati sospetti.
Raccontare la società civile in un paese in guerra
Ciò che caratterizza il lavoro di Laura Silvia Battaglia, ed è uno dei motivi per cui l’ho voluta intervistare, è la volontà di restituirci oltre alla dinamica del conflitto il racconto della società civile, cosa per niente scontata. È il risultato di una scelta ben precisa e consapevole: (9’45”) “Ci sono delle zone di mondo che conosco poco, di cui non conosco la lingua, rispetto alle cui culture non mi sento tanto in prossimità (…). La mia scelta è stata quella di muovermi nel Mediterraneo, poi del Mediterraneo allargato, poi Turchia, Iran, Pakistan, Afghanistan e una parte minima Sub Sahariana.(…). Credo di avere una certa affinità con queste realtà, di riuscire a comprendere e anticipare un certo tipo di atteggiamenti”. A questa scelta di base, se ne lega un’altra fondamentale: come si vuole raccontare un conflitto. C’è l’aspetto tecnico, che ha in sé la geopolitica ma anche la questione logistica.

Laura Silvia Battaglia a Sana’a
(audio 12’29”) Ma poi si possono fare due scelte: “Si può decidere di raccontare il conflitto da parte di chi lo vive in prima persona perché partecipa (un militare, un esponente delle milizie o di un gruppo esterno). Se c’è l’avanzata di un fronte si racconta da un punto di vista tecnico, con le implicazioni umane che non sono necessariamente positive. L’altro modo, che può essere un di più, non out out, è raccontare la situazione dei civili. Ed è una cosa che ho trovato sempre molto affine alle mie corde, non per una questione di genere. Non credo che le donne che fanno il mio lavoro abbiamo questo tipo di sensibilità o che gli uomini siano più vicini a un racconto militare. Non credo sia una questione di genere, ma legata all’indole e a considerazioni di natura logistica e pratica che riguardano il modo in cui si arriva in un conflitto”. (audio 13’56”)
L’importanza di conoscere il paese e la sua storia
Dalle sue parole torna di nuovo l’importanza di conoscere prima il paese per avere una visione più complessa “perché la storia ci racconta quali possono essere le reazioni e le conseguenze di un conflitto”. Rimanere un periodo limitato e fermarsi in luoghi considerati più sicuri non consente di entrare a contatto con le persone comuni. Il ruolo del fixer è dunque determinante: perché spesso tende a far incontrare al giornalista persone dell’upper class che non sono rappresentative, a volte neanche dell’élite al potere. (L’esempio dell’Iran è significativo audio 16’16”).
“Le società sono realtà complesse, per avere una visione molto ampia ci vuole tempo, a volte anche mesi senza scrivere una riga”.
Durante i conflitti tutto però è più veloce e non si può stare per dei mesi, ecco perché conoscere già da prima il paese fa la differenza, anche per capire perché certe classi sociali sostengono milizie violente che agli occhi dell’osservatore possono sembrare oscurantiste (audio 19′). “Non si può capire se non vive la realtà di famiglie che sono in casa senza acqua, senza servizi, senza luce, senza denaro, senza beni primari che sono diritti dei cittadini, che vengono negati ora ma che erano negati anche prima, magari da un governo centrale dove c’erano una o due famiglie che mettevano tutti i soldi del paese in tasca”.
Alla scoperta dello Yemen con Laura Silvia Battaglia
Perché lo Yemen
(audio 20′ 40”) Se l’attenzione alla società civile permea i reportage di Laura Silvia in generale, per quanto concerne lo Yemen è ancora più evidente: credo sia la giornalista italiana che meglio conosce il paese, dove ha vissuto prima e durante il conflitto. È arrivata lì nel 2012 per prendere un diploma in Arabo in un momento in cui la sua carriera era ad una svolta, dopo un ennesimo contratto non rinnovato in un quotidiano nazionale per via del blocco delle assunzioni. Avrebbe potuto battersi legalmente per essere assunta (molti l’hanno fatto), ma lei ha deciso di credere in un detto siciliano ripetuto dalla nonna “impedimentu juvamentu” (se c’è qualcosa che ti blocca probabilmente ti sta dicendo altro audio 22’07”), sfruttando quel momento per capire cosa volesse veramente.
Ha optato per 6 mesi sabbatici con l’intenzione di mettere da parte il giornalismo e dedicarsi allo studio. Le migliori scuole di arabo all’estero erano a Damasco e Sana’a: nel primo caso la situazione era già critica, mentre in Yemen la rivoluzione aveva preso una direzione più pacifica. “Poi tutte le persone che in Italia parlavano bene la lingua avevano studiato lì, la bellezza del posto mi attraeva e c’era un mio amico fotografo che mi diceva che lo Yemen era il posto giusto per me. Alla fine dissi: ok, vado in Yemen. Ed in effetti era il posto giusto per me”, precisa Laura Silvia.

Sana’a
Non furono mesi solo di studio, perché presto si presentò l’occasione per lavorare, contattata da una nuova agenzia americano libanese, Transterra, che cercava filmaker. Dopo alcuni mesi Laura Silvia ottenne anche il visto come giornalista. (audio 26’26”) Lo Yemen era, recuperando il posto giusto a valle dell’impedimento giusto. Le cose sono andate come dovevano andare, in linea con il suo pensiero secondo cui ogni esperienza può diventare uno strumento per la comprensione di noi stessi e del futuro.
Immagini dello Yemen
Ma veniamo allo Yemen, un paese di cui già Pier Paolo Pasolini esaltava la bellezza. Laura Silvia ci restituisce una stupenda immagine. (audio 31’30”) “Un paesaggio naturale di montagne altissime quasi ocra, ma non è il rosso dell’Africa, è più chiaro, un po’ terra di Siena, che improvvisamente si aprono al passaggio, in queste strade strette, in valli inaspettate. Sembra di essere in un presepe esteso, dove poi queste montagne passano dall’essere brulle e desertiche all’essere ricche di vegetazione verdissima, con nuvole basse che al tramonto diventano quasi rosse come il cielo di Roma. (…)” Poi la parte di costa “con questo mare di un azzurro quasi diafano, brillantissimo, in spiagge lunghissime, completamente incontaminate (…). Non c’è un’anima viva, poi ad un certo punto spuntano un cammello o una pastora.
Yemen e globalizzazione
Tutto questo non è toccato dalla globalizzazione, dal mondo che è tutto uguale a se stesso dappertutto. Ed è effettivamente la stessa cosa che diceva Pasolini: lui diceva che è il Paese che ha resistito più di tutti, quantomeno nel Medio Oriente. Lo Yemen è un posto dove fino a 10 anni fa non c’era un supermercato. (…) Questo paese per tantissimi anni ha conosciuto un modo di vivere che non ha nulla a che fare con nessun paese raggiunto dal commercio contemporaneo (audio 35’30”). Questo aspetto c’è, permane, prima della guerra ma anche adesso, ti immergi in questa realtà e sai che i tuoi parametri devono essere molto diversi. In Yemen la vita dell’essere umano segue il naturale passaggio dal giorno alla notte, cioè il movimento del sole: si svegliano alle 5 per pregare, poi occupano al mercato e sono tutti particolarmente vivi, poi alle 7.30 si va a dormire perché semplicemente non c’è luce”.

Matrimonio a Sana’a
Uno stato di cose dove conta solo l’essenziale. Una situazione che Laura Silvia ricollega in qualche modo a quella attuale segnata dal Covid-19, dove ci si accorge finalmente che la vita ha poche cose veramente importanti, ma la riempiamo di tante cose. “Lo Yemen mi ha aiutato a mettere le cose nei posti che contano, a dare spazio e importanza alle cose che sono fondamentali dell’esistenza”. Ovviamente, c’è una precisazione da fare ed quella che riguarda i giovani yemeniti, che magari hanno studiato all’estero, desiderano emigrare e vorrebbero cambiare lo Yemen. Purtroppo ora il cambiamento è dettato dalla guerra che va avanti da 6 anni.
La difficoltà di raccontare lo Yemen in guerra
Parlare di Yemen oggi vuol dire far riferimento alla guerra, anche se è un conflitto difficile da raccontare (audio 42′). Il rischio, come sempre, è quello di trasformare una parte per il tutto, cioè raccontare un pezzo della storia come quello fosse tutta la storia e questo deriva in primis dalle difficoltà di entrare nel paese, come spiega Laura Silvia. C’è e c’è stato un numero limitato di testimoni: quelli locali, quando non sono scappati, sono stati minacciati e si devono piegare alla volontà delle parti in causa. Se vivi al sud – controllato dal governo centrale – non puoi lavorare per un canale degli Houthi, i ribelli del nord, e viceversa se stai al nord. Il rischio è di essere arrestati e condannati a morte senza un reale processo (audio 43′).
Le modalità di racconto
Per i giornalisti stranieri “le modalità di racconto sono due: quella dei Sauditi e i media della Lega araba affiliati al governo centrale, che fanno transitare i giornalisti stranieri da Riyad a zero spese, li fanno salire su un aereo militare e li portano nella zona controllata dai Sauditi dove c’è una collinetta da cui si può vedere la linea del fronte”. I servizi fatti da lì parlano “di questa front line e delle charity dei Sauditi che recuperano bambini soldati reclutati dagli Houthi e che vengono condotti in centri per essere riabilitati”.
(audio 47′) Oppure si devono pagare “7.500 dollari a testa per passare attraverso il conflitto con l’Oman trafficato da un gruppo che è affiliato ai ribelli del nord, i quali ti prelevano dal confine, ti portano come se fossi un fantasma nelle zone del sud, ti procurano documenti falsi e ti fanno passare il confine con la zona nord: lì vieni preso in carico da un fixer finto che riporta al governo tutto quello che fai e loro ti dicono cosa devi fare”. Il racconto così si riduce a bambini malnutriti con la dottoressa che prova a salvarli sotto i bombardamenti sauditi da un lato, e bambini soldati e lega araba che vincerà, dall’altro. In queste narrazioni scompaiono i civili, fatta eccezione per bambini malnutriti e operatori delle organizzazioni internazionali.
Come raccontare dei civili
I giornalisti, essendo controllati, non possono avere contatti con i civili che spariscono dalla narrazione. Per questo è fondamentale chi conosce bene il territorio e riesce ad intercettare le persone e le loro storie perché ha una rete di contatti estesa: (audio 49′) “Vieni a sapere ad esempio della signora di Odeida che ha aperto un negozio in cui lei stessa fa circuiti elettrici” o di “un uomo che decide di aprire una scuola dove il governo centrale non vuole o non è riuscito e decide di farlo per evitare che i bambini attraversino la front line e vengano impallinati dai cecchini” ma anche “di un gruppo di ragazzi della città di Aden che decidono con i loro soldi, perché sono espatriati e hanno vissuto negli Stati Uniti o negli Emirati, di girare un film perché nella società esiste una legge che dice che non deve esistere il cinema e che non si deve fare”. Tutte storie su cui Laura Silvia ha lavorato o sta lavorando, un reportage di tipo sociale che non mostra le conseguenze classiche della guerra.
Ti suggerisco di vedere il documentario Yemen, nonostante la guerra.
Il punto è come mostrare i civili, spesso sono narrati solo come vittime, anche per via di una necessità legata al recupero di aiuti umanitari (audio 53′). Un aspetto importante, ma che non può limitare il racconto di un paese in guerra:
“se mostriamo i civili solo come le vittime o carnefici non facciamo il bene di quella società, perché non mostriamo gli anticorpi che essa presenta per poter diventare un paese libero, indipendente, per poter camminare sulle proprie gambe.
Se non facciamo conoscere queste storie non sapremo mai chi sono gli attori di questa società, quali sono le persone che possono prendersi cura del comitato cittadino di una città, che è la base fondamentale, non dico della democrazia (che non si può realizzare in questa zona anche per motivi culturali), ma quanto meno di un pluralismo”. (Molto interessante anche l’esempio della Siria, è stato annullata la realtà composita di cui erano composti i comitati andavano in piazza audio 54’47”)
Ignorare le società civili, spiega, vuol dire anche ignorare i giovani che in società patriarcali non hanno accesso alla politica: “Lo abbiamo visto anche in Iraq, le rivolte recenti sono il frutto di una vita di sopportazione: i ragazzi che vediamo in piazza e che incontravo dieci anni fa avevano le idee molto chiare già allora , ma non sono potuti passare dalla politica perché non ne hanno diritto in quanto sono giovani. Questi giovani nelle realtà medio orientali sono tantissimi e non possono restare inascoltati. È il problema che c’era anche con le rivoluzioni arabe”. (audio 55’39”)
La voglia di sperimentare
Un’altra delle caratteristiche chiare del metodo di lavoro di Laura Silvia Battaglia è di non concentrarsi solo su un formato, ma di sperimentare. Lei infatti è anche l’autrice di una graphic novel molto bella: La Sposa Yemenita (ne parlavo qui). Una scelta che parte dalla convinzione che tutte le forme di narrazione abbiano una loro dignità e il reportage lungo non sia l’espressione più alta del giornalismo (audio 1 ora 02’23”). L’idea era quella di non raccontare lo Yemen agli addetti ai lavori, ma di intercettare chi il “paese non lo conosce, i giovani che vanno a scuola, che hanno 15 anni e che fanno le file per avere una firma sul libro di Zero Calcare. Io ritengono che il giornalista sia un divulgatore prima di essere uno studioso e dovrebbe riuscire a capire che stare nella torre d’avorio non fa bene a nessuno”, commenta Laura Silvia.

Disegni della graphic novel
(audio 1 ora 7′) La sperimentazione però non finisce qui: perché per oltre un anno ha lavorato ad un web doc, Yemen, the secret country, che sta uscendo a puntate con il Corriere della sera e utilizza materiali raccolti dal 2012. Un formato poco usato in Italia e molto costoso. Come ci spiega lei stessa, Washington Post, The Guardian, Al Jazeera, la BBC lo utilizzano da tempo ed hanno delle sezioni apposite, perché le competenze richieste sono specifiche e non necessariamente le stesse di chi fa giornalismo digitale. Una delle caratteristiche distintive è la navigabilità, quindi dove va il racconto, che in quelli più belli diventa gamification: il lettore entra cioè nei panni del personaggio.

Yemen, the secret country
“Una delle idee del mio web doc è che il lettore possa mettersi nei miei panni e possa seguire le tre rotte che ho seguito per entrare nello Yemen in guerra”, incontrando le persone che ho incontrato. Il web doc sullo Yemen ha un’altra particolarità, quello di esser stato finanziato anche con un crowdfunding di successo: “Siamo riusciti a finanziare più del 100% del progetto, che però copre solo una parte della post produzione”.
L’Iraq di Laura Silvia Battaglia
Chiacchierando con Laura Silvia abbiamo attraversato tante aree e ci siamo fermati anche in Iraq, l’altro paese dove ha lavorato di più:“è diventato un buco nero negli anni successivi al 2009/2010. Era completamente scomparso da qualsiasi giornale”. (audio 1 ora 12′ 51”)

Laura Silvia Battaglia a Mosul
Con le sue parole torniamo quindi “all’agosto del 2012, quando un gruppo elevato di detenuti della regione sunnita a nord di Baghdad era stato rastrellato dalle forze dell’esercito iracheno, vennero portati ad Abu Ghraib dove furono giustiziati in una notte senza giusto processo”, in un Paese con uno stato di diritto, un parlamento e una costituzione riconosciuta dalla coalizione internazionale. “Questa vicenda non venne seguita, era un trafiletto piccolissimo nella pagine esteri. Io ero rimasta molto colpita. Dopo due anni da questa regione nascono le milizie che conquisteranno Falluja, parte di Baghdad, Al Ambar e Mosul e che si riconnetteranno direttamente con la Siria. Da qui nasce Isis”.

Mosul-Iraq
E prosegue aggiungendo che l’Iraq (audio 1ora 17’21”) “è un’enorme pentola a pressione che bolle sopra uno strato di pece, uno strato di violenze inenarrabili, in una popolazione dove non c’è una sola persona (…), che non abbia un trauma. Una popolazione che ha un trauma collettivo impressionante. È un paese al quale sono legata perché è un paese nei confronti del quale abbiamo grandi debiti di narrazione e grandi debiti nei confronti di tutte le generazioni che sono vissute dal periodo di Saddam che era una dittatura fino al periodo attuale”. E ancora “il problema dell’Iraq non è Isis, il problema dell’Iraq è una struttura sociale che si basa su un’estrema violenza che è praticata da tutti”.
L’esperienza in Kosovo
(audio 1ora 18′ 40”) C’è invece un paese che Laura Silvia ha visto ma di cui non ha scritto, nonostante glielo avessero chiesto: il Kosovo, dopo la fine della guerra in Iugoslavia. “Il contrasto tra le comunità locali era diventato esponenziale. Tutti raccontavano la propria storia di massacri negando quella dell’altro. Sono stata per 20 giorni, non tanto, e anche all’inizio della carriera, oggi l’affronterei con una maturità diversa: mi resi conto che non avevo capito questo posto, e decisi di non scrivere e di non lavorare sui materiali raccolti perché non avevo maturato una comprensione di quello che mi avevano raccontato (…). Ho pensato che prima di raccontare una cosa a un lettore devi aver almeno capito qualcosa tu”.
Ritornare alla normalità dopo un viaggio
(audio 1ora 21’46”) Dopo tutto quello che Laura Silvia mi ha raccontato viene normale chiedersi come possa un giornalista tornare alla normalità della vita quotidiana avendo vissuto certe esperienze. Lei mi spiega l’importanza di un processo di decompressione di un mese circa, lontano dalla famiglia, magari immersi nella natura. Lo stesso che viene applicato al personale militare e delle ONG strutturate quando rientrano da zone di guerra. Una percorso che da una ventina di anni anche giornalismo americano e anglosassone stanno attuando. Perché non è facile affrontare la sindrome del sopravvissuto e il rischio è rinchiudersi in un totale isolamento.
“La tendenza è immergere la persona di ritorno nella routine, ma questo crea una sorta di sdoppiamento della personalità: da una parte cerchi di accontentare le persone che ami, dall’altra sviluppi comportamenti strani, scatti d’ira, insofferenza. Il problema nasce dal mitizzare certi ruoli, come quello del giornalista di guerra” che una volta rientrato, specie se ha vissuto situazioni al limite come rapimenti, viene dato in pasto alle telecamere senza lasciargli il tempo di decomprimere. Un tema che le sta a cuore e su cui sta lavorando con alcuni colleghi per diffondere maggior consapevolezza.
La vita al tempo del Covid-19
(audio 1ora 29′) Non potevamo non chiudere sul Covid-19, non tanto sulla malattia in sé quanto sul riscontro nella vita di una giornalista di guerra come lei: “Adesso la notizia è qui, quello che faccio all’estero lo faccio qua”. Ora lavora con molti media stranieri all news potendo trasmettere da casa, questo grazie ai tanti contatti sviluppati grazie al lavoro all’estero. In questo caso la pandemia l’ha messa di fronte ad un aspetto delicato: la responsabilità verso gli altri, poiché vive con una persona immunodepressa, per cui il suo lavoro sul campo, per ora limitato, deve e dovrà tenere conto dei rischi a cui potrebbe esporre anche questa persona. (Ti consiglio di ascoltare la sua riflessione: audio1ora 29’32”)
Spero che la mia chiacchierata con Laura Silvia sia stata per te interessante. È un’intervista a cui tengo molto, è un po’ lunga lo so, e l’ho tagliata molto (c’è l’audio per ascoltarla integralmente) ma ci tenevo ad ospitare in questo blog le parole di chi è stato in luoghi difficili da conoscere, segnati da conflitti, e scoprire, attraverso la sua esperienza, come si racconta un paese in guerra.
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