– Storie di donne in Etiopia, la venditrice di legna –
Gira per le strade di Debre Markos con grandi cesti pieni di legna e, se la si guarda bene, si scopre che con lei c’è un piccolo scricciolo, la sua bambina di poco più di un anno. Amuneggh Mengestu per sopravvivere raccoglie bastoni nel bosco e li rivende al mercato.
Un lavoro faticoso, la tiene occupata tutta la settimana per diverse ore al giorno ma non le assicura neanche una vita dignitosa. Purtroppo sembra che non abbia alternative. “In fondo, meglio questo che fare la cameriera in casa d’altri”: racconta timidamente quando la incontriamo. Ci troviamo nella casa di terra e paglia (struttura tipica in Etiopia) sede dell’associazione di donne di Debre Markos aiutata dall’ONG CVM. Per diverso tempo Amuneggh ha prestato servizio come domestica in alcune famiglie e ne ha terribili ricordi. Quel lavoro richiede grossi sacrifici e nasconde terribili insidie per le donne in Etiopia, situazioni che per noi a volte sono difficili da immaginare.
La storia di Amuneggh
Amuneggh è originaria di un villaggio a 30 km da Debre Markos. Dice di avere 19 anni ma ne dimostra molti meno. Poco più che quindicenne è rimasta orfana di entrambi i genitori: non aveva fratelli o sorelle con cui condividere quel momento, così ha camminato fino a Debre Markos, grosso villaggio a 400 km da Addis Abeba, dove vive una cugina con la famiglia. Quei parenti l’hanno ospitata per un po’ ma non era gradita, troppo poveri per accollarsi un’altra bocca da sfamare, così le hanno trovato un posto come cameriera in una famiglia di Addis Abeba.
Nella capitale però ad aspettarla non c’erano le opportunità della grande città ma sfruttamento e solitudine.
Era costretta a lavorare 18 ore al giorno tutta la settimana, senza giornate libere, il tutto per una cifra irrisoria (soli 30 ETB -1,50 euro). In casa si occupava di tutto in casa e ovviamente dei quattro bambini.
Dopo un mese di servizio, Amuneggh ha chiesto di andarsene, ma in risposta sono arrivate le percosse del capofamiglia.
Per sua fortuna, la moglie del datore di lavoro, mossa da una pietà mai dimostrata fino a quel momento, l’ha lasciata andare e lei è tornata dalla cugina a raccogliere legna. Poi è arrivato il secondo lavoro come cameriera, questa volta in una famiglia di Bahir Dar, cittadina turistica sul lago Tana, a nord di Debre Markos. Anche qui guadagni magri ma condizioni più sopportabili: lavorava 14 ore con un giorno libero a settimana. Rimproveri e punizioni c’erano sempre, ma meglio che ad Addis Abeba. Le cose sembravano procedere.
Quella parvenza di normalità, se così si può chiamare un lavoro di tante ore al giorno contornato da urla e punizioni, non era però destinata a durare. A rompere ogni speranza e illusione la cattiveria umana: il figlio del padrone ha abusato di lei.
La condizione delle donne in Etiopia
Nei tanti mesi trascorsi in Etiopia raccogliendo storie e documentazione sulla condizione delle donne e delle ragazze, mi sono imbattuta in decine di casi come il suo: bambine, a volte piccolissime, mandate per necessità a lavorare in famiglie dove subiscono violenze di ogni tipo, davanti alle quali non hanno armi per difendersi. Lavorano tantissime ore al giorno, non hanno possibilità di studiare, spesso non percepiscono neanche uno stipendio, ma ricevono solo vitto e alloggio. Purtroppo capita ancora sovente che subiscano violenze sessuali dai padroni.
Come fosse un rischio del mestiere, come fosse naturale abusare di giovani che la disperazione e la fame costringono al silenzio.
Ci sono associazioni che lavorano perché ciò non accada più, che danno supporto (come l’ONG CVM, con cui lavoravo), ma il cambiamento è duro, perché deve sradicare usanze e convinzioni estremamente forti che riguardano il ruolo della donna.
L’impossibilità di difendersi
Quell’esperienza è una ferita terribile che Amuneggh porta dentro e che non si può rimarginare, i suoi occhi lo rivelano chiaramente. L’ingenua Amuneggh ha raccontato tutto al capofamiglia, che però ha preferito credere alla versione del figlio: “Era stato uno sconosciuto a stuprarla”. Violata, accusata di mentire e cacciata via per paura che fosse rimasta incinta, Amuneggh ha raccolto le sue cose ed è ripartita per bussare, ancora una volta, alla porta della cugina. Le difficoltà però non erano finite: a causa di quella violenza era rimasta incinta.
Nove mesi vissuti come se non avesse portato nel grembo un bambino, costretta dal bisogno a faticare: camminate tra boschi e mercato, pesi sulle spalle nonostante il pancione.
Nessuna visita in ospedale (purtroppo non è così raro per le donne in Etiopia portare avanti una gravidanza senza controlli). Il parto ha avuto luogo in casa, per fortuna senza complicazioni, riferisce con una tranquillità disarmante, quasi non si rendesse conto dei rischi corsi. Per lei però non ci potevano essere tanti giorni di riposo, solo 2 settimane di pausa e via nel bosco di nuovo.
Amuneggh e la sua bimba
Ora c’è anche una creaturina di cui occuparsi: l’ha chiamata Hulunayhue Nibiret, che significa ‘ho visto molte cose’, un nome che rivela il dolore provato. Non ha nessuno a cui lasciarla, così se la carica addosso e la porta nel bosco. Tanta fatica per 10 ETB giornalieri, pochi per pagare cibo e affitto, a volte non bastano per tutti i pasti e mai per acquistare carne.
Ha cercato un altro lavoro senza successo, dice con un filo di voce, ma non tornerebbe mai a fare la cameriera. Così non ha neanche l’opportunità di studiare, nonostante lo desideri: non sa leggere né scrivere.
La forza delle donne in Etiopia
Quando l’abbiamo conosciuta però sembrava che qualcosa di buono potesse accadere: una speranza per lei era l’associazione di Donne povere nata con l’aiuto del CVM, alla quale si è avvicinata. Grazie all’ONG, questo gruppo sta creando qualcosa di importante: una piccola comunità che attraverso il micro credito ha avviato delle piccole attività, i cui ricavi vengono reinvestiti per sostenere altre donne.
Ci sono speranza, progetti e soprattutto una forte solidarietà.
L’associazione, guidata da una donna forte e dolcissima di cui avevo già parlato, si sta impegnando molto per aiutare orfani come Amuneggh ma anche molto più piccoli.
Grazie agli incontri periodici questa ragazza, ad esempio, ha capito cos’è l’HIV e ha fatto il test, risultando negativa. Il gruppo progetta anche di aprire un bar da far gestire a giovani come lei: sembra un sogno, ma sono determinate a trasformarlo in realtà.
Mentre ne parla gli occhi di Amuneggh si illuminano di una luce che per le due ore del nostro incontro non avevamo mai visto.
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