– Viaggi in Etiopia –
Ogni viaggio in Etiopia riservava qualche sorpresa, sapevi che saresti partito, non sempre a che ora sarebbe accaduto, ma quasi mai quando saresti arrivato. E soprattutto cosa sarebbe successo durante o chi avresti incontrato. In Etiopia anche il viaggio, inteso proprio come trasferimento da un luogo all’altro, non è mai stato solo uno spostamento in vista di una meta da raggiungere. È sempre stata una sorta di avventura, parte significativa della vita in quei luoghi.
Gli aneddoti legati ai viaggi in Etiopia, che sovente andavano dalle 5 alle 14 ore, spesso in strade che qui definiremmo sentieri o campi, tornano spesso nei nostri racconti. Ci ripensiamo con il sorriso, ora che i dolori alla schiena e al sedere, così come gli interrogativi sull’esito del viaggio, sono solo un ricordo. Così ho pensato di raccogliere qui un po’ di aneddoti dei nostri viaggi in Etiopia.
Viaggi in Etiopia
Noi ci siamo mossi all’interno del paese cercando di utilizzare il più possibile i mezzi adoperati da gran parte della popolazione, evitando i bus più costosi preferiti soprattutto da stranieri e dalle persone più abbienti. Resti sempre un privilegiato, perché puoi scegliere e hai accesso a mezzi che le persone comuni spesso non sognano neanche. Ma non vivi in una bolla dove ci sono solo ricchi etiopi o cooperanti, come c’è il rischio che accada.
È utile qui una precisazione: in quel periodo si poteva scegliere tra i lussuosi Selam bus, gli autobus tradizionali, i minibus e le auto private. Poi c’erano gli aerei interni, ma su quelli la chicca la racconto alla fine.
Quale mezzo scegliere
I Selam bus erano praticamente bus turistici relativamente moderni, di solito di un verde acido sgargiante, piuttosto comodi e veloci, ma molto costosi per i locali. C’era quasi sempre la musica etiope a tutto volume e l’aria condizionata al massimo, stile frigorifero.
Gli autobus normali erano vecchi mezzi malandati, scoloriti e pieni di ammaccature, con sedili sfondati e spesso così ravvicinati che non sapevi dove mettere le gambe. Partivano solo quando erano super pieni, facevano decine e decine di fermate, c’era un’altissima possibilità che si rompessero lungo il tragitto e non era mai chiaro quando sarebbero arrivati a destinazione. Per prenderli dovevi presentarti nella caotica stazione dei bus, qualsiasi stazione dei mezzi è un guazzabuglio di gente che grida e veicoli ammassati, tra le 4.30 e le 5 del mattino. Dovevi chiedere in giro quale fosse il mezzo giusto e, sperando di averci preso, salire e attendere la partenza, a volte per ore.
A bordo dei minivan
Poi c’erano i minibus, dei minivan da circa 12 posti che arrivano a contenere anche 30 persone e qualche gallina. Praticamente i principali mezzi per spostarsi in città come Addis Abeba, ma che percorrevano anche lunghi tragitti. Partivano più di frequente rispetto agli altri, ma comunque solo quando erano stracarichi. Ti ritrovavi spesso schiacciato tra persone e bustoni. Erano però piuttosto pericolosi: gli autisti guadagnavano sul numero di viaggiatori e quindi cercavano di fare la stessa tratta più volte al giorno, correndo come pazzi. Ti capitava spessissimo di vederne uno capovolto lungo le strade.
La prima volta che l’ho preso ho fatto il viaggio rannicchiata in un angolo accanto ad una signora con tanti fagotti, una gallina e una bimba di 2 anni stupita dal fatto che i miei capelli fossero lisci. Era la prima volta che vedeva una ragazza bianca e la sensazione dei capelli al tatto fu la cosa che la colpì di più. Restò ore a giocare con le mie ciocche.
In generale, non capitando spesso di vedere stranieri a bordo di quei trabiccoli, quando li prendevamo attiravamo molto l’attenzione.
Ancora non conoscevo la pericolosità di quei mezzi, ma nei mesi successivi cercai di evitarli il più possibile.
Poi c’erano le auto private, quelle della ONG – comode e sicure in gran parte – e quelle di qualche ufficio governativo con cui l’organizzazione aveva contatti e che poteva darci un passaggio: e che passaggio!
In auto con l’amministrazione locale
Ci accadde una volta e da lì facemmo in modo che non si ripetesse. La proposta era arrivata da un funzionario che doveva raggiungere la nostra stessa meta, a circa 4 ore da dove vivevamo. L’auto era della municipalità e l’autista autorizzato a far salire persone che pagavano qualcosa per il viaggio, per lui sarebbe stato un ulteriore guadagno. Così ci ritrovammo in 7 dentro un’auto troppo piccola, con due signore che soffrivano di mal d’auto sedute nel bagagliaio che vomitarono per gran parte del tragitto all’interno di buste di plastica che restavano in auto. A metà strada si bucò una gomma mentre veniva giù una fitta pioggia. Quasi finimmo fuori strada. Le manovre per cambiare la ruota dall’auto durarono tantissimo e non era possibile scendere dal veicolo. Il farci rimanere a bordo era una cortesia per via della pioggia e a nulla valse la nostra insistenza. Alla fine ripartimmo che era quasi buio.
Non si viaggia di notte
In Etiopia pochissimi guidavano di notte, anche perché nessuna strada di periferia era illuminata. Spesso non c’era segnaletica e gli animali attraversavano la strada: insomma era un rischio. Anche perché uccidere una pecora o un asino poteva voler dire mandare in rovina una famiglia, la cui unica risorsa poteva essere proprio quell’animale. Mettici pure che quasi nessuno indossava gli occhiali da vista e non perché avessero tutti 10 decimi, ma perché erano troppo costosi. L’ultima ora la facemmo completamente al buio, l’autista non accese i fari – capitava spesso che non li accendessero e non ho mai capito perché.
C’erano ovviamente anche i taxi in alcune città. Noi a dire il vero li abbiamo presi solo un paio di volte. La prima è stata la nostra salvezza ad Addis Abeba: eravamo arrivati da poche ore in Etiopia, usciti per fare un giro avevamo dimenticato la via della guest house presi dell’adrenalina di esser lì e riuscimmo a rientrare solo per la pazienza dell’autista che si fece a passo d’uomo tutto l’intricato intreccio di vie del quartiere, finché non riconoscemmo quella giusta. Ad aspettarci c’erano le colleghe ormai nel panico per via del nostro ritardo. La seconda volta che prendemmo un taxi era ad Harar: una Peugeot anni ’50 con 7 persone a bordo e lo sportello che si apriva da solo di continuo.
Viaggi in Etiopia: in giro con i colleghi
Quando si viaggiava con lo staff della ONG era tutto diverso, gli autisti erano in gamba ma avevano il brutto vizio di non rispettare mai gli orari. Si presentavano all’alba, nonostante l’orario pattuito fosse magari un’ora dopo, e bussavano alla porta mentre tu eri ancora sotto le coperte. Oppure arrivavano con ore di ritardo senza avvisare. A volte la partenza è slittata così tanto da finire al giorno successivo, senza però aver preso una decisione definitiva. Insomma: eri pronto a partire ma succedeva sempre qualcosa per cui non si sapeva se ci si mettesse in viaggio o meno. Chi doveva decidere magari era irraggiungibile al telefono e non si sapeva dove fosse finito: così aspettavi zaino in mano.
Inutile arrabbiarsi, l’Abesha gheterù – il ritardo etiope (modo di dire locale) – è la regola e lamentarsi non serve a nulla.
Viaggi a sorpresa
Ogni viaggio per lavoro era comunque un’esperienza unica perché c’erano sempre i colleghi locali che potevano tradurre e quindi ci permettevano di andare oltre le poche frasi che conoscevamo in Amarico (nelle zone rurali era difficile trovare qualcuno che parlasse Inglese). Per questo una volta mi intrufolai in un viaggio dove non ero necessaria ma che puntava verso posti che non conoscevo. Fu uno dei più belli: incontrammo pure un’eremita che scavava una chiesa in una grotta e alla fine io raccolsi materiale per le ricerche che facevo per l’ONG.
Viaggiammo per 750 chilometri in 2 giorni, in buona parte su strade periferiche in pessime condizioni, seduti in tre sui due posti davanti di un piccolo fuoristrada e 4 sui tre posti dietro.
Abesha gheterù
Che poi il ritardo delle partenze in auto non caratterizzava solo i viaggi con i colleghi, era la regola anche se affittavi un auto privata per raggiungere posti altrimenti inaccessibili, come quando andammo nell’Omo valley. Affittammo un fuoristrada con autista (non avevamo la patente locale) e una guida: la mattina della partenza ci fecero aspettare quasi un’ora perché l’autista e il suo amico, che non sarebbe venuto con noi, dovevano fare colazione. Io con l’emozione al massimo per quello che ci aspettava e loro che si gustavano enjera e pecora (il piatto tipico) di prima mattina. Inutile lamentarsi: è l’Abesha gheterù. Tanto saremmo partiti comunque.
Le rotture, le buste di plastiche e il nulla
Poi ci fu la volta che presi il bus tradizionale per rientrare al villaggio e il motore, in parte rivolto all’interno accanto all’autista, iniziò a fumare: la creatività o l’incoscienza in quei casi dà il suo meglio. Driver e assistente iniziarono ad aprire il coperchio e fissare i pezzi con buste di plastica. Fecero tre tentativi, percorrendo tra una “riparazione” e l’altra si e no un chilometro, per poi farci scendere tutti praticamente nel nulla.
Ebbero comunque pietà dell’unica occidentale a bordo che si guardava intorno spaesata: mi aiutarono a fermare uno dei fatidici minibus, si proprio quelli sui quali mi ero ripromessa di non salire. Purtroppo non avevo scelta e strizzata sul sedile davanti insieme ad altre tre persone feci il resto della strada ripetendo come una litania “kes kes” (“piano, piano!” in Amarico) all’autista. L’uomo rideva di cuore, non so se per tranquillizzarmi o perché mi avesse preso per una pazza.
Va poi aggiunta una nota di colore: ovviamente il minibus aveva la pelliccia copricruscotto, un grande classico dei mezzi etiopi, che siano minivan o bus. Ad impreziosirla c’erano sempre bandiere in plastica e spesso immagini religiose, anche nello stile dei quadri, dietro al sedile dell’autista. Non di rado il tettino sopra il guidatore era adornato anche di frange messe tipo baldacchino.
Plastica e nastro adesivo comunque erano tra gli strumenti preferiti per le riparazioni, come scoprimmo durante il nostro viaggio al sud: uno dei mezzi che ci accompagnò aveva il volante tenuto insieme con lo scotch.
Viaggi in Etiopia, a braccetto con il militare
Tra i viaggi in Etiopia, quello con il bus che si rompe e provano ad aggiustarlo con la busta resta tra i primi ricordi che tornano alla mente, ma anche la volta con il militare dotato di fucile a tracolla è difficile da dimenticare. Rientravamo da un viaggio ad Axum. Come sempre il mezzo era super affollato di gente e c’erano buste che pendevamo un po’ dappertutto.
Noi eravamo seduti in fondo, sull’ultima fila di sedili. Il controllore si era accomodato sul gradino subito davanti a noi e aveva scelto le gambe di Ugo (il mio compagno) come schienale. Già così l’idea di affrontare 4 ore di viaggio non era esaltante, ma lo diventò ancora meno quando salì un signore serio con una mezza divisa scolorita e un vecchio fucile in spalla. Si sedette proprio accanto a noi e fece le ore restanti con quell’arma che dondolava verso i presenti in modo inquietante ogni volta che si appisolava.
Il posto di blocco
C’è stata anche la volta che abbiamo semi forzato un posto di blocco: eravamo a sud ed avevamo appena visitato l’area dei Dorze, raggiungendola con un minivan pubblico. Quella era una zona protetta e per accedervi i mezzi dovevano avere speciali lasciapassare, ma l’autista l’aveva dimenticato. Così restammo appostati per oltre mezz’ora dietro a un incrocio dove potevamo vedere la pattuglia che faceva i controlli. L’autista e la nostra guida – un ragazzo giovanissimo che ci accompagnò poi nell’Omo Valley – discutevano per trovare una soluzione. Andare a piedi non era un’opzione, perché il villaggio era lontano.
Sembravano non venirne a capo quando da lontano spuntò un camion: la loro strategia fu quella di immettersi sulla strada subito dietro il grosso mezzo per cercare di passare inosservati. Quando il camion fu fermato dalla polizia, l’autista del minibus accelerò e scappo via di corsa. Sembrava una scena di un film poliziesco di basso livello, con il minivan che tremava e sferragliava tutto, ma alla fine funzionò. La serata si concluse a casa della guida che ci ospitò per una cena preparata dalla sorella a base di scirò e canna da zucchero.
A bordo dei bajaja
Sentito mai parlare di bajaja? In pratica sono quelli che in India e molti altri paesi chiamano tuk tuk: le “apette” che funzionano come mini taxi. In Etiopia si chiamano bajaja, sono economiche e si usano molto. Al nostro villaggio però le utilizzavamo poco perché preferivamo camminare, era un ottimo modo per socializzare e integrarsi.
Nonostante non ne facessimo largo uso, già dopo le prime 2/3 settimane tutti gli autisti di bajaja del villaggio, anche se non ci avevano mai caricato, sapevano dove abitavamo. L’espressione “werajall” che si dice all’autista quando ci si vuole fermare, lì non l’avremmo mai usata, rallentavano ancora prima della curva della nostra abitazione: sapevano tutti dove fermarsi.
L’areo che fa i capricci con le spie
I viaggi in Etiopia possono prevedere anche il ricorso all’aereo, ovviamente per i locali è molto costoso, ma per raggiungere alcuni posti, tipo Lalibela, è la soluzione migliore sia per questioni di tempo che per le condizioni delle strade. Noi abbiamo preso gli aerei interni una sola volta e non la dimenticheremo: aeroporto piccolino e controlli quasi inesistenti, ma fin lì niente di straordinario. Una volta seduti però l’aereo iniziò a spegnersi e riaccendersi diverse volte in pochi minuti, non sto scherzando. Andò avanti così per una trentina di minuti.
Non capivamo cosa stesse succedendo, fino a quando una voce dalla cabina per tranquillizzarci ci spiegò che c’erano “delle spie anomale sul pannello di controllo che restavano accesse anche se si sarebbero dovute spegnere e dovevano capire cosa fosse”. Un premio alla sincerità, ma per una volta avrei preferito una bugia! Ovviamente arrivammo sani e salvi, ma anche questo merita uno spazio speciale nell’album dei ricordi.
Anche i viaggi in Etiopia, come vedi, hanno rappresentato un parte significativa di quell’esperienza. Ci sono tanti altri aneddoti che vorrei raccontare, ma magari li riservo per una seconda puntata.